Ricordo tutto di quella giornata, sono sicuro sia lo stesso per voi e per miliardi di altri esseri umani. L’11 settembre 2001, conclusa la mattinata di lavoro, andammo a pranzo da Mondo, al ristorante della stazione. Dalla redazione de L’Unione Sarda, in Corso Umberto, a piedi ci si impiegava un minuto. A Olbia c’era il traffico caotico di un’estate che ancora ruggiva. Rita Denza sedeva sulla panchina, accanto all’ingresso del leggendario ristorante “Gallura”. Andammo, perché con me c’erano i colleghi Giampiero Farena ed Andrea Busia. Scaloppine al limone, grigliate di carne, una bottiglia di nebbiolo Karana dei colli di Luras. Il pranzo era finito ma noi lo allungavamo con un’appendice di chiacchiere e risate, godendoci il soffio gelido dell’aria condizionata. Mancavano 18 giorni al mio matrimonio e gli argomenti non mancavano. Mondo si avvicinò al tavolo portando con sé un’espressione preoccupata e parole confuse: bofonchiò di un aereo che si era andato a schiantare su un grattacielo, a New York. Quell’ansia stonava sul suo volto sempre sorridente, sulla sua sagoma atletica. Sul mio Ericsson T28 iniziarono ad arrivare per sms telegrafici lanci dell’Ansa e, con essi, le prime ipotesi di un attacco terroristico. Allora ci spostammo di fronte al televisore. Antonio Di Bella spiegò quel che era accaduto alle Twin Towers, gli aerei, il fuoco, l’apocalisse, l’altro jet dirottato, l’Air Force One che vagava nei cieli americani per sottrarre George Bush junior al fuoco nemico. Non so perché chiamai la mia fidanzata, non so perché chiamai i miei a casa. Non lo so, ma chiamai un sacco di gente: montava un’angoscia, la percezione di un pericolo mostruoso che ci avrebbe inghiottito tutti, ovunque nel mondo, anche nel più remoto stazzo in culo al più irraggiungibile anfratto della Gallura. Volevo sapere cosa facevano e dove stavano i miei affetti. Lo volevo sapere subito, come quando si sentono urlare le sirene di un’ambulanza e si è colti da un sinistro presagio. Telefonai a Giampiero, che a quel punto era già partito per la sua casa di Sassari: “Sta iniziando la terza guerra mondiale”, pronosticò. In fondo non era andato tanto lontano dalla verità. Un collega, Luigi Folino, mi telefonò per dirmi che lui ed altri giornalisti si stavano spostando verso la base americana, a La Maddalena. Sembrò anche a me la cosa più sensata da fare e avvertii Gianmario Giglio, il mio caposervizio, che stava a Sassari. Ma Gianmario non sapeva nulla di quel che stava accadendo e mi appese il telefono in faccia, credendo fossi ubriaco o in vena di scherzi. Mi richiamò lui, qualche minuto dopo. “Sono scioccato”, continuava a ripetere. Non riuscì a dire altro, se non ad autorizzarmi alla trasferta a La Maddalena. Sentivo in sottofondo le cronache concitate provenienti dalla televisione accesa e, nel silenzio del mio capo, tutto lo sgomento che un uomo possa contenere. Partii con la mia Panda verso l’imbarco di Palau. Antonio, il fotografo, si mise in viaggio con la sua auto, secondo la vecchia regola che cronista e fotografo dovessero restare indipendenti negli spostamenti. Chiamai il segretario del commodoro, che qualche volta era stato a cena dai miei suoceri. Fu evasivo e mi liquidò in pochi secondi.
Tutto il plotone dei giornalisti invase il municipio, accolto dal vicesindaco. L’aria era grave e ogni gesto trasmetteva una pesante carica di tensione. Andammo alla caserma americana e la trovammo circondata da guardie armate: era un obiettivo sensibile e le misure di sicurezza erano state innalzate in proporzione al livello massimo di allerta. Di rientro verso Olbia, sentii il bisogno di fermarmi a metà strada per prelevare la mia fidanzata e portarla con me in redazione. Fu nei pochi secondi di sosta che, sullo schermo, vidi quel corpo umano precipitare da uno degli ultimi piani della torre. Come in una moviola seguii il disperato salto nel vuoto di un uomo che si sente perduto, senza scampo, intrappolato in un inferno di fiamme e fumo a trecento metri d’altezza. L’agitarsi di gambe e braccia nella caduta inesorabile mai potrò dimenticarlo.
I vigili urbani non volevano farmi entrare con l’auto in Corso Umberto, chiusa al traffico nelle sere d’estate. Contrattai il permesso con l’agente che controllava la transenna: mi avrebbe lasciato passare se avessi promesso di occuparmi di una vertenza che li contrapponeva al Comune. Me la spiegò efficacemente in pochi secondi. La solita bega sindacale nella giornata dell’Apocalisse. Eppure mi sorpresi interessato ad una lite che, in qualunque altro momento della mia vita, mi avrebbe provocato solo noia e sbadigli. Mi appuntai il numero del vigile e gli garantii il mio interessamento. Avevo bisogno di normalità, di cronaca piccola e insignificante.
Poi scrissi il mio pezzo, di cui invece non ricordo manco una riga o una frase. Perché non me ne importava nulla.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo e-book "Cosa conta".
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