Ripartiamo da Abele. Siamo così sicuri che i nostri vicini di casa, i nostri amici, conoscenti, parenti, connazionali, siano delle brave persone e siamo convinti che il male se si annida, non può farlo vicino al nostro marciapiede?Siamo così convinti di questo che non siamo mai disposti ad ascoltare chi invece – assistenti sociali, psicologi, poliziotti, sociologi, medici in genere, educatori – ha notato, ha analizzato, ha verificato e ha ricercato, con dovizia, con attenzione, tutti i fatti provando a giungere a quella che possiamo chiamare una “verità condivisa”, una verità cioè che possa soddisfare le controparti, una verità che possa far crescere tutti, vincitori e vinti, angeli e demoni, Caino e Abele. Una verità difficile da tracciare con assoluta certezza perché quando si tratta di intervenire su fatti è necessario analizzare i dati, fidarsi di criteri scientifici che, per quanto rigorosi possono apparire fallaci. Dobbiamo mettere nel conto la percentuale d’errore e la possibilità che quello sbaglio sia effettuato in assoluta buonafede. Questo dovrebbe essere il terreno di partenza per qualsiasi analisi che prenda in considerazione l’uomo, la sua cultura, il suo modo di comportarsi, il suo essere “sociale”, il suo habitus all’interno dell’interazione con i gruppi. Non è possibile analizzare uno stretto numero di casi e affermare che ci troviamo davanti alla verità inconfutabile e inconfondibile. Prendiamo per esempio la cittadina di McFarland la cui storia la racconta Roberto Burioni nel libro “La congiura dei somari”: «A McFarland, una piccola cittadina californiana, negli anni ottanta una mamma, dopo aver visto diagnosticato a suo figlio un tumore, si accorse che altri quattro bambini che abitavano non troppo lontanto da casa sua erano affetti dalla stessa terribile malattia. Ben presto i medici ne identificarono altri quattro e questo bastò ad allarmare i cittadini, visto che la popolazione totale di McFarland era di 6400 abitanti e il tasso di incidenza di tumori infantili risultava quattro volte quello atteso. La stessa cosa accadde nel 1990 a Los Alamos, in New Messico, quando (…) ci si accorse di sette casi di tumore cerebrale tra i residenti di un piccolo quartiere della città. Essendo questo il luogo dove era sviluppata la bomba atomica, la gente cominciò a pensare che ci fosse qualcosa di più pericoloso nell’acqua o nel terreno. (…) Le indagini, una volta eseguite (…) smentirono la presenza di qualunque anomalia con inequivocabili analisi statistiche. Quel numero di casi di tumore non aveva, malgrado le apparenze, nulla di strano. [1]In questo caso le analisi chiarificatrici hanno portato ad una verità condivisa. Certo, qualche scettico continua a credere che a McFarland o Los Alamos vi sia qualcosa di strano ed è probabile che vi sia qualcuno che attribuisca tutto all’acqua avvelenata o alle scie chimiche ma non ha le prove, non ha un’indagine statistica. Se è apparentemente semplice accettare una verità condivisa – che, beninteso non sarà mai la verità assoluta – su dei casi che si ripetono in maniera non sporadica e con una spiegazione scientifica lineare è meno semplice accettare una verità su problematiche che riguardano la sfera personale e affettiva. E’ assolutamente complesso comprendere il mondo dei bambini: incantato e dolcissimo da una parte, gonfio di paure e buchi neri dall’altra. In altri termini: non c’è una statistica sui bambini violati, abusai, maltrattati. Ci sono numeri generali (e sono preoccupanti) ma si distribuiscono a macchia di leopardo in tutto il paese. Sicuramente emergono dati meno confortanti in famiglie “ a rischio” ma non è detto che tutti gli abusi si consumino all’interno di quei nuclei. I metodi degli specialisti sono diversi e scientificamente tutti probanti in quanto si basano su studi testati negli anni, su discussioni, su tesi che si rifanno ad altri studi ed altri stesi. Tutti i metodi portano a delle considerazioni finali che non producono però la classica prova della pistola fumante in mano al presunto assassino. Sarebbe tutto troppo bello, molto semplice, ma un abuso, un malessere, un maltrattamento o una violenza non hanno una firma univoca, non ci sono modi di vivere, di parlare, non ci sono credenze religiosi o manie specifiche che portino con certezza a riconoscere un reato su un minore. Il problema più grande, il vero ed enorme problema è che quel reato ce lo può raccontare solo il minore e non è semplice. La caratterizzazione semantica dei concetti si diversifica tra adulto e minore e se un adulto afferma che “il sole brucia” è vero solo se il sole brucia. Se un bambino afferma lo stesso concetto probabilmente ci vuole raccontare – o vuole raccontare a se stesso – un’altra cosa. L’adulto sa che commettendo un tale fatto può essere punito perché la Legge lo denota come reato, il minore, in realtà, non sa se ciò che sta compiendo o ciò che si compie nei suoi confronti sia un reato e non sa quanto sia grave. Per capire questo passaggio proviamo a raccontare un fatto realmente accaduto dove sono protagonisti un adulto ed un minore e dove si commettono due azioni: quella dell’adulto gravissima e successiva ad un comportamento adottato dal minore che, però, non voleva nella maniera più assoluta commettere qualcosa di negativo. Il bambino, un ragazzino di tre anni dalla pelle nera, si avvicina al passeggino di un altro bambino molto più piccolo di lui e dal colore della pelle bianca. Ovviamente nessuno di loro ha scelto il colore della propria pelle e il bambino vuole solo abbracciare quel neonato. Lo vuole fare perché abbracciare è un gesto liberatorio, lo vuole fare perché per lui l’abbraccio è un gioco, un segno. Il bambino di tre anni ci vuole dire – e dice con i gesti – che due bambini quando si incontrano si abbracciano e quel gesto è condiviso dai suoi genitori e pertanto è convinto che universalmente è accettato. Il papà del neonato non la pensa così: immagina che quel bambino dal colore della pella diversa dalla sua vuole, in realtà picchiare, molestare, far del male al proprio bambino. E’ convinto in quanto secondo un suo personale codice culturale un “nero” rappresenta sempre un problema, può essere un pericolo. L’uomo adulto ha nella sua concezione semantica un’idea totalmente errata e la utilizza sempre, senza ragionarci: “estraneo è sempre cattivo” pensa l’uomo bianco ed è convinto che questo sia vero.Quando un uomo, un adulto, prende a calci un bambino di tre anni, reo di essersi avvicinato al passeggino dove era depositato un altro cucciolo d’uomo, il figlio di questo signore, quell’asticella si è inesorabilmente spostata verso l’ignoto, verso un punto di non ritorno. Chi ha commesso quel gesto, quell’atto indicibile non può più stare nel branco se non comprende la gravità e l’inutilità dell’atto. È un padre che difende il proprio figlio ma non può – e non deve – attaccare un altro cucciolo. Nessun animale lo fa, perché l’istinto ha una costruzione più armonica delle incrostazioni della razza umana: unica razza sulla terra che coltiva l’odio per il gusto di coltivarlo. Non possiamo stare tutti i giorni a rivedere i confini o indicare il nuovo Caino, il reietto da espellere, perché così facendo facciamo lo stesso gioco di quell’uomo che ha preso a calci un bambino di tre anni. Non possiamo tutti i giorni presentarci al mulino dell’esistenza e cercare di setacciare una farina ormai troppo grossa che non passa più nel colino della decenza. Dobbiamo, come comunità, come gente “normale” dire basta. Dobbiamo raccogliere quell’asticella e affermare a gran voce che occorre fermarsi, che non è pensabile leggere e raccontare un clima assurdo e disdicevole. Ditemi se siete ancora disposti a giocarvi questa partita o, se nel vostro piccolo, potete cominciare a diventare utili filtri sociali: cominciando a stanare gli inventori dell’odio, gli atleti della cattiveria, denunciando questi modi di fare, chiedendo a gran voce la chiusura dei loro profili social e cominciando a spiegare che non occorrono asticelle per vivere normalmente, non è necessario costruire tutti i giorni una sfida contro l’altro, contro l’ipotetico estraneo. Non siamo in una serie tv. Gli uomini hanno tutti uguali dignità. Cominciamo a rispettarli partendo dai bambini. Questo dobbiamo fare e dobbiamo, davvero, mantenere la voce ferma. Dobbiamo lavorare per una verità condivisa.Dobbiamo spostare l’asticella della decenza, del rancore, dell’odio sordo, della cattiveria. Dobbiamo farlo affinché si possa stabilire, una volta per tutte, il confine tra gli uomini e no. Tra coloro che raccolgono anche i sussurri di una dignità ormai scomparsa e quelli che, invece, mattone dopo mattone, scientemente e con uno zaino gonfio di rancore, distruggono ogni giorno quel muro una volta immenso della civiltà umana. Quando decidiamo che quello è il confine, che quell’atto è il più disumano che possa essere compiuto, subito c’è qualcuno che sposta l’asticella, la porta verso il baratro, verso il confine dove, forse, ci sono solo “gli altri”, come nella serie pluripremiata “Lost” o, peggio, gli estranei del famosissimo “trono di spade” che, però, almeno loro, portavano da sempre le stigmate di Caino. Erano riconoscibili, avevano il segno del male. Erano stati disegnati per essere cattivi. Ed invece in questa sterminata babele di anni dispari gli estranei camminano sui nostri marciapiedi, apparentemente docili, conniventi con la vita, normali. Con una famiglia e dei bambini. Si disegnano buoni, si sforzano di esserlo, sono pasolinianamente “schifosamente borghesi” non di una borghesia opulenta e ideologica, piuttosto figli di scelte frettolose piene di piccoli valori: qualche certezza, un profilo social con le foto dei compleanni, dei gattini, dei figli felici. Una sorta di “mulino bianco” post moderno. Non è vero che queste persone coltivano la loro rabbia e i loro istinti feroci solo davanti ad una tastiera diventando rancorosi e vendicativi. Sarebbe troppo semplice anche perché in realtà molti di quelli che ululano nel web poi, in fondo in fondo, sono cuccioli vigliacchi che non riescono – per fortuna – a mettere in pratica il loro veleno. Se così non fosse ci sarebbero stuoli di donne violentate, persone uccise e lapidate. Però l’asticella si sposta e lo fa in maniera inesorabile. La realtà si rimodula e ci consegna storie che neppure i migliori narratori saprebbero tratteggiare in maniera così normale, così assurda, così terribile. Così stupida e bastarda. Storie che non sono quelle di Bibbiano ma che, paradossalmente, rimangono nascoste e sconosciute: ciò che non si racconta finisce per non esistere e ciò che si enfatizza finisce per diventare verità. [1] Roberto Burioni, “La congiura dei somari” Rizzoli, 2017. Pag. 44
OTTAVA PUNTATA. CONTINUA.
Vi parliamo di Bibbiano. Le precedenti puntate:Prima puntataSeconda puntataTerza puntataQuarta puntataQuinta puntataSesta puntata settima puntata
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Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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