Fino a ieri si pensava che il melone provenisse dall’Egitto, si parla del V secolo aC, e che si fosse diffuso in tarda epoca romana in Italia. Lo diceva Plinio il Vecchio, vera miniera di informazioni dell’antichità.
Ora questa scoperta, se vogliamo, è ancora più sensazionale di quella della vite.
Certo, sapere che il vino della Sardegna è uno dei più antichi in assoluto nel Mediterraneo, ha delle ricadute molto attuali sulla “guerra” del vino, dove l’antichità di un vitigno sposta cospicui interessi commerciali.
Tuttavia la vite è una pianta che si trova allo stato spontaneo nei boschi sardi, mentre il melone è una coltivazione di cui non si è sicuri della sua origine.
Le analisi con il C14 datano i reperti, semi perfettamente conservati, al XII o XIII sec. aC., molti secoli prima dei meloni “egiziani”, in piena età nuragica.
I reperti conservati dagli antichi nuragici in queste preistoriche celle frigorifere, oltre a mostrare un eccezionale rigoglio della natura dell’epoca, con i semi di piante selvatiche e coltivate, come i fichi, more, prugnole, ginepro, lentisco, orzo e frumento e tanti altri, dimostrano anche una attitudine alla coltivazione da parte degli antichi sardi, con cultivar che si pensava fossero di provenienza orientale.
Tutto questo stravolge quella oziosa linearità della storiografia ufficiale, che concepisce il mondo antico come un flusso ininterrotto di civiltà che proviene dall’Oriente, sosta in Grecia e in Italia, e poi cammina su per l’Europa in epoca moderna.
Io immagino che la coltivazione dei nuragici avvenisse secondo il metodo dello “slush and burn”, praticato da tutte le popolazioni che vivono a contatto con la foresta, e che nell’isola veniva praticato specialmente prima del disboscamento dell’800 in tante parti dell’isola, con il nome di “narbone” o di “orzaline”.
In pratica si ricavava da un pezzetto di foresta, con il taglio e la combustione della biomassa, una porzione di terreno coltivabile, che sfruttava al massimo per qualche anno la fertilità accumulata nel tempo. Poi si trasferiva il terreno coltivato in un’altra parte. E’ una forma di coltivazione itinerante che resta in equilibrio con l’ecosistema.
E’ interessante notare come, dopo il disboscamento dell’800, l’immaginario collettivo dei sardi ha portato a ritenere che l’isola fosse una terra arida, aspra e ventosa, popolata da pastori e banditi che lottavano contro una natura ostile. Gli stessi intellettuali sardi, all’interno di una dialettica culturale marxista che rivendicava per la Sardegna risorse e comprensione dentro un modello di sviluppo di importazione occidentale, hanno accentuato ancora di più questa idea, con il risultato di alimentare questo mito di isola povera e sfortunata che perdura tuttora.
Questo mito ora si sta sgretolando, e una parte del mondo culturale sardo sta rivedendo, con molte titubanze e molta timidezza, quella concezione.
Non è un caso, forse, che il tappo della bottiglia lo stiano facendo saltare enti di ricerca, avulsi dal dibattito storico sulle condizione dell’isola. Sono enti come il Dipartimento di Ingegneria dell’Università di Cagliari, che con questa straordinaria invenzione, il Georadar, sta dando un contributo fondamentale alla scoperta dei reperti archeologici nel sito di Monti Prama; e come, ovviamente, il Centro Conservazione della Biodiversità del Dipartimento delle Scienze della Vita e dell’Ambiente dell’Università di Cagliari, che dopo anni di studio con i reperti di Sa Osa ora raccolgono i frutti, è il caso di dirlo, delle loro fatiche, con riconoscimenti che ormai hanno fatto il giro del mondo.
E tuttavia, quella concezione di Sardegna terra “sfigata”, si è radicata talmente dentro l’immaginario collettivo dei sardi, che non sarà facile estirparla.
Anche perché, tutto sommato, fa pure un po’ comodo.
E infatti, a tutte le scoperte di questi anni, ad iniziare da quelle clamorosa dei Giganti, molti sardi hanno reagito con incredulità, scetticismo, sarcasmo, persino con uno sciocco riduzionismo o, addirittura, con un ottuso negazionismo.
Come se non bastassero già i “continentali”.
Anche personaggi insospettabili, osservatori critici del rapporto con lo Stato centrale, opinionisti legati al mondo dell’autonomismo, del sardismo, dell’indipendentismo, faticano a trovare una collocazione storica di queste scoperte.
Si è parlato molto di mitopoiesi, di fantaercheologi, di nuragismo, per arrivare persino al disprezzo feroce nei confronti dei reperti storici che… averceli gli altri!
Una collocazione storica quella della Sardegna antica che, in realtà, bastava ricondurla alla terra con la più alta concentrazione di monumenti archeologici del mondo, per capire, con molta serenità, che qualche strafalcione la storiografia ufficiale l’aveva preso.
Neppure c’è la consapevolezza del ruolo che la storia può svolgere, alimentando un immaginario collettivo positivo, anche quando è popolaresca ed è fuori dai canoni rigorosi della scienza, nei riguardi della determinazione di una comunità a scegliersi il proprio destino senza imitare ed importare modelli di sviluppo che, alla fine, non sono altro che una forma, più o meno mascherata, di prelievo di risorse e sfruttamento.
E’ probabile che vi sia ancora, da parte di molti sardi, una sorta di complesso di Edipo da superare, il complesso di Edipo di una storia un po’ ingombrante che ci obbliga a determinate responsabilità.
pubblicato il 21/2/2015
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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