Il giorno di San Valentino, Marco ha pensato a me e, invece di mandarmi una rosa, mi ha taggato in un post importante: https://www.facebook.com/notes/marco-pitzalis-piano/solo-baddevr%C3%B9stana-pu%C3%B2-salvare-i-paesi-dellinterno/1551491055113592?pnref=story
Marco, ricambiato, mi vuole bene.
Ma Marco sa bene che io sono un rompiballe.
Perché mi ha taggato? Boh?
Leggetivi il post, ché non ho intenzione di stare ad analizzare minuziosamente una cosa scritta in modo già così chiaro.
Per cominciare, invece di parlarvi della Sardegna interna, vi parlo dell’Olanda.
Io lavoro nella scuola, in Olanda, e sono abituato ad alunni che, già a un’età in cui in Italia si va ancora alle medie inferiori (13 anni), si fanno 20 (venti) chilometri in bicicletta per andare alla scuola che hanno scelto.
O che hanno scelto i loro genitori.
L’Olanda è un paese notoriamente pianeggiante, ma spesso ci soffia anche un vento della madonna e ci fa molto più freddo che in Sardegna.
Dunque, venti chilometri in bicicletta, rimangono venti chilometri anche in Olanda.
La RAS vuole mettere a disposizione degli scuolabus, ai ragazzi dei paesi della Sardegna interna, dopo la chiusura delle pluriclassi?
Mi sembra che la RAS sia molto più accondiscendete dell’Olanda.
Eja, dell’Olanda–tutti gli olandesi, insomma–visto che non ho mai sentito di una sola iniziativa per richiedere che i ragazzi olandesi siano portati a scuola dallo scuolabus.
Oltretutto, 20 chilometri in bicicletta, magari con il vento contrario, sono più lunghi di 20 chilometri coperti in autobus.
N’est-ce-pas?
Ah, le mamme olandesi portano i figli all’asilo in bicicletta quando la temperatura è ben al di sotto dello zero!
Orrore!
Eppure–incredibile!–i bambini arrivano vivi alla meta.
Gli olandesi dicono: andiamo a prenderci un naso fresco.
Insomma, il mondo è bello perché è vario, e non fa male imparare a conoscerlo.
Dove l’Olanda non differisce dalla Sardegna–né dal resto del mondo–è nel fatto che anche qui la periferia si svuota a favore del centro.
Anche i paesi olandesi si svuotano, almeno nelle province periferiche, e così le scuole.
Questo è un problema universale che ho affrontato in un articolo ormai vecchissimo che i diversamente colti e monolloingui in italiano non potranno leggere: https://bolognesu.wordpress.com/cosas-de-limba/sa-limba-de-su-famine-s%E2%80%99italianu/
Cazzi loro.
Queste considerazioni sono presenti anche nel post di Marco, anche se partendo da posizioni politico-culturali differenti.
Il centro decide cosa debba studiare la periferia: ecco perché si chiamano “centro e periferia”!
E questo comporta che la scolarizzazione dei ragazzi della periferia, sia anche la loro preparazione all’emigrazione verso il centro.
A scuola si acquisiscono i modelli culturali vincenti al centro e questi vengono presentati come modelli ideali.
È sempre stato così, ma questa cosa, al giorno d’oggi, viene rafforzata enormemente dai mass media, che ormai raggiungono ogni angolo della periferia.
I mass media ci espongono a modelli culturali prodotti dal centro, presentati come gli unici modelli accettabili.
Marco la pone in questi termini: “Pensare dunque che la scuola serva a far restare i ragazzi nei paesi non ha alcun fondamento storico. Non è difficile osservare che la gran parte delle scuole delle zone interne formano maestre, ragionieri, futuri universitari. Esse hanno risposto ai progetti e alle domande delle classi medie rurali e urbane. In fondo, Padre padrone aveva ragione la scuola ha contribuito a creare le condizioni dello spopolamento delle campagne. La scuola dunque è il cavallo di Troia della modernità.”
La prossima volta che incontro Marco di persona, gli mollo un cazzotto sul naso, per aver chiamato “modernità” quella che è soltanto la concezione del mondo di chi controlla il centro, ma il succo del discorso rimane comunque quello.
Chi , trovandosi in una posizione subalterna, è stato esposto all’ideologia del centro non può fare a meno–tranne alcuni rari casi–di considerare tale ideologia come “senso comune” o addirittura “buon senso”: “Se vuoi avere successo nella vita, devi essere moderno!”
Che poi è il messaggio di quel filmaccio razzista, oltre che bruttissimo, dei sorelli Taviani.
Il libro di Gavino Ledda è un’altra cosa, anche se Gavino, dopo il successo del film, è diventato una comparsa dei sorelli Taviani.
Ed è qui che Marco mi delude.
Marco accetta il modernismo come unica possibilità di avere successo.
Il problema è se avere successo in questa società che esprime questa scuola e i sorelli Taviani, voglia dire anche avere successo nella vita.
Il caso ha voluto che ieri sera Edith mi abbia proposto di vedere il video di The Wolf of Wall Street: la storia di un “uomo di successo”, secondo i parametri del “modernismo”–leggi neoliberalismo–che anche Marco–inconsciamente?–condivide.
Marco, però–inconsciamente?–ci ha proposto una metafora–Baddevrústana e la storia di Gavino Ledda–che manda a fare in culo tutto il suo discorso sulla modernità.
Tutti noi del giro sappiamo come è finita la storia della “modernizzazione” di Gavino Ledda.
Tutti sappiamo come è finita la sua “emancipazione” dal suo padre-padrone.
Io considero Gavino Ledda la metafora di tutti i sardi che hanno avuto successo al “centro”: da Segni a Cossiga, passando per Berlinguer.
Eja!
Passando per Berlinguer.
O almeno la metafora dei sardi che hanno visto l’assimilazione–pardon, modernizzazione–come unica via all’emancipazione.
Il conflitto tra Gavino Ledda e suo padre–unu rimitanu, secondo la definizione di Mialinu Pira–è il conflitto tra due modi diversi, ma speculari, di concepire la propria identità unicamente come negazione dello sviluppo, dell’evoluzione.
Gavino è sfuggito a Baddevrústana solo per finire rinchiuso in un bottiglione.
Questa, più o meno, è la fine che fa un quarto dei ragazzi sardi.
Un terzo, se contiamo quelli che in effetti sono analfabeti funzionali.
La scuola, l’esposizione alla cultura dominante del centro, non li libera, non li fa emancipare.
Insomma, Marco Pitzalis hai perso l’occasione per parlare dei contenuti di una scuola che esiste per alienare i ragazzi sardi da se stessi, e dalla loro terra, e che li ridurrà–nella migliore delle ipotesi–a emigranti, come me, o–nella peggiore delle ipotesi–a fenomeni da baraccone ad uso e consumo del circo Taviani.
Con in mezzo tuttà la realtà della disoccupazione e della sottoccupazione.
Allora, Marco, il problema non sono le pluriclassi–che spariscano pure e che i ragazzi sardi pedalino!–ma una scuola che produce alienazione e disadattamento, come la tua metafora–Gavino Ledda–dimostra.
Torno all’Olanda.
Anche qui esistono il centro e la periferia e anche qui vedi in azione gli stessi meccanismi perversi.
Però c’è una cosa che rende la Sardegna differente.
Il potenziale economico della Sardegna interna.
La Sardegna importa oltre l’80% dei prodotti alimentari che consuma e possiede un patrimonio archeologico-culturale e paesaggistico–e qundi turistico–enorme.
Mentre l’Olanda esporta una quantità enorme di prodotti alimentari e non ha più interesse a mantenere una popolazione consistente nelle zone agricole periferiche e poco interessanti culturalmente.
Cosa fa la scuola sarda per preparare i ragazzi a sfruttare queste potenzialità economiche che da noi invece esistono?
Cosa fa la scuola per fa amare ai ragazzi il loro territorio e insegnare loro quali sono le sue potenzialità?
Come hai detto tu, la scuola li prepara invece a soddisfare le esigenze del centro, in termini di preparazione a svolgere attività lavorative funzionali ai suoi bisogni.
Del centro, mi!
E allora, smettimela con questa storia delle scuole belle.
Il problema della scuola sarde non è né quello delle pluriclassi, nè quello deglle scuole brutte.
Diglielo a Pigliaru che è ora di mettersi a studiare!
Il problema è che la scuola sarda è una scuola coloniale, che esiste soltanto per soddisfare le esigenze della metropoli.
Se ti occupassi della scuola algerina negli anni Cinquanta lo vedresti subito.
E dire che un tempo la sinistra era anticolonialista.
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