Questa storia è come un film e dovrebbe essere raccontata con la forza che solo gli americani riescono ad avere. Perché questa è anche una storia sporca, antica e moderna. Una storia che “si porta sempre” in qualsiasi maledetto conflitto che vede contrapposti gli uomini. Questa è una storia di gente codarda e di gente cattiva, di gente che ama la terra e di gente costretta a fuggire e a morire. Di gente bugiarda che vuole fare carriera sulla morte degli altri. Questa è una storia che doveva finire in un altro modo, meno americano e arrogante. E’ una storia contro gli indiani. Scritta dagli invasori. Una storia vigliacca che parte da lontano. Da molto lontano. Tutto nasce da uno sporco trattato, quello di Medicine Lodge. A firmarlo sono i Cheyenne e gli Arrapaho. Accettano per mantenere almeno un lembo di terra rinunciando ad un’immensa prateria dove c’erano i bisonti, la loro principale fonte di sostentamento. Un trattato infame, diciamolo subito. Costruito per essere odiato dagli indiani e, probabilmente, volutamente provocatorio per gli invasori: i nuovi americani. Siamo nell’estate del 1868 e i Kiowa i Comanche, alcune tribù dei Cheyenne, i Lakota, i Pawnee non sono d’accordo su quelle carte maledette che privatizzano i territori, lasciando a loro i luoghi più brutti e senza campi da arare. Attaccano alcuni insediamenti del Kansas Occidentale. Forse vengono uccisi almeno quindici coloni bianchi. Si capisce da subito come funzionano certe storie. Raccontate dagli americani poi diventano subito leggenda. E per esportare la democrazia (lo fanno da una vita, come mestiere e come missione) decidono di attaccare in grande stile le tribù degli indiani cattivi e assassini. Trovano anche l’eroe di turno. Un tenente colonnello dai modi spicci, occhi turchini e giacca uguale. Si chiama Geroge Armstrong Custer. Capite subito che questa battaglia sarà cruenta. Il tenentino contro nomi che diverranno epici per chi, come me, ha letto e riletto i vari Tex Willer: Piccolo abito, Collina sabbiosa, Vitello di pietra, Piccolo Lupo, Orso Bianco, Grande corvo, Vento che corre. Indiani che vivevano nella loro terra. Quella terra si chiamava Washita.Custer divise i suoi uomini in quattro gruppi e attaccò i villaggi dove c’erano anche le donne e i bambini. Lo scontro fu cruento. Ci furono molte frecce lanciate contro il cielo per farlo respirare. Ci fu la prateria che si dipinse di sangue. Il perfido Custer sequestrò oltre cinquanta tra donne e bambini e li usò come scudi umani per potersi muovere liberamente nel campo di battaglia, così da sfuggire agli attacchi degli indiani che, comunque, si difendevano e difendevano la loro terra.In questa storia, oltre al colonnello biondo, c’è anche il suo reggimento: il 7° cavalleria, con il soldato che suona la tromba e i cannoni tuonanti e i lunghi fucili. Una strage. Una carneficina. Della battaglia di Washita e di quel che accadde veramente il 27 novembre 1868 non si è mai avuta grande certezza: Custer dice di aver ucciso 103 uomini alcune donne e pochi bambini (risulta dal suo rapporto ufficiale). Altri, il maggiore Generale Sheridan, per esempio, dicono ottanta, altri ancora una novantina. La battaglia continuò per giorni e per mesi. Custer scriverà di aver ucciso altri 140 indiani il 22 dicembre del 1868. E, come nei film dove a vincere sono gli americani – quelli ritenuti buoni – se ne vantò moltissimo. Li aveva ricacciati nelle riserve, come oggi respingiamo altri uomini. Geroge Armstrong Custer, grazie anche a questa carneficina fu promosso generale. Il 22 giugno 1876 il trombettiere del suo 7° cavalleria suonò per l’ultima volta la tromba. Erano al Little Big Horn. Il generale Custer e i suoi soldati furono tutti uccisi. Così finì il generale, occhi turchini e giacca uguale. Figlio di un temporale.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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