Ho provato a pensare a qualcosa di avvolgente, unico, difficile da raggiungere. L’ho pensato perché volevo scrivere un racconto, dove non c’erano esseri umani ma solo cose che giocavano con la natura. Non mi piacciono, in questi giorni occhi e mani e corpi. Non so neppure perché, ma è come avere una certa paura di dover intraprendere una discussione. Vorrei – e so che è difficile – poter essere squisitamente solo e non essere neppure corpo, carne, respiro. Essere, quasi esclusivamente pensiero. Alla televisione contrappongo libri e capisco che non può continuare in questo modo. Dei giornali leggo solo lo sport e le pagine culturali. Nient’altro. Quasi a volermi depurare di tutto il grigiore che sento intorno. Non vorrei sporcarmi. Sono stanco e spossato. Vorrei solo poter leggere favole e viaggi meravigliosi. Ed è per questo che ho cominciato a leggere il libro di Carlos Ruiz Zafon: Le luci di settembre. Un bellissimo libro.Con una bellissima copertina. Perché aveva qualcosa di avvolgente,unico, difficile da raggiungere: il faro.
Ecco la mia meta che è la stessa di Ismael, il protagonista del romanzo e della sua barca Kyaneos (ciano, in greco, ovvero, secondo Omero, il colore vero del mare). Son subito volato con la mia barca virtuale verso il mio unico e forte, docile, terribile, avvolgente faro. Mi son posato su quelle onde che scandiscono il brulichio dei pensieri, che modellano i sorrisi con il sale, che induriscono le facce e inumidiscono l’anima. Quel faro che è roccia e urla di gabbiani, che è pietra che non si muove e che scansiona la memoria e ha solo ricordi di acqua e di dolcezza. Quel faro che rappresenta l’essenza di un approdo incerto, un puntino di speranza che non tutti riescono a notare. Quel faro che scompare e nasce una sottile angoscia e poi ricompare a scaldare il cuore e la forza di continuare. Quel faro lucido lavato da troppe onde, opaco abbandonato da tutti, che macina ottusi silenzi e magnifichi tramonti. Volevo raccontare questo: meglio, volevo raccontare il faro. Come attimo soave di piccole possibilità, come ancora che non si arrugginisce al mare che lo divora, pietra che resiste, luce che ritorna, vita ad intermittenza. Mi son rituffato sulla vela di Ismaele e dentro quel racconto, leggendo con prudente leggerezza quelle pagine ho disegnato il mio vecchio e dolce faro che ha le sembianze di Punta Scorno, urlo che non arriva da nessuna parte, eroe antico che attende navi che non passano, ormai solitario. Senza uomini. Piccola luce in un deserto mare. Questo siamo e per ricontattare occhi e corpi e sospiri dovremmo ripartire da quel castello sontuoso di acqua e sale:il faro.
Questo dobbiamo cercare.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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