Trovo su Facebook la scena di alcuni uomini di colore che si accaniscono selvaggiamente su un’auto dei carabinieri, distruggendola a forza di mazzate. Il video lo ha pubblicato un collezionista di piccoli incarichi di sottogoverno, area centrodestra, al momento un po’ in disarmo. Guarnisce il suo contributo filmato con i regolamentari insulti a Renzi, secondo lui incapace di arginare la piaga immigrazione e dunque direttamente responsabile dei rischi corsi dalla popolazione per questa incontrollata invasione. Poi, sulla sua bacheca, arrivano dei commenti. Fanno notare che in un angolo dello schermo, per tutta la durata della scena, si intravede un microfono. Già, perché quella è la scena di un film. Quell’aggressione alle forze dell’ordine usata per la propaganda politica è stata estratta da una fiction televisiva.
Ora, i casi sono due. Ma non necessariamente uno esclude l’altro.
1) Il politico non è in grado di distinguere una scena di vita reale dalla messa in scena di un film, oppure non si è preoccupato di verificare la fonte e di accertarne l’attendibilità. Lacune piuttosto serie, specie per chi ha amministrato la cosa pubblica e conta di amministrarla ancora, se le cose gireranno per il verso giusto;
2) Il politico era consapevole di avere diffuso una bufala, ma non era la verità ciò che perseguiva. Cercava di dimostrare la sua appartenenza ad un’area politica e sociale, stava esibendo il tesserino di un club e dimostrando di avere le carte in regola per esserne parte.
Mi spiego meglio.
La mia sensazione è che in quella vasta area politica che una volta si riconosceva nel centrodestra berlusconiano – e che oggi è una destra indefinita e babelica – la componente Salvini abbia un’influenza sempre più condizionante, per certi versi egemonica. Perciò bisogna adeguarsi. Gran parte di quell’elettorato chiede maniere forti contro gli immigrati e considera appartenente al proprio orizzonte politico chi soffia sul fuoco dell’intolleranza. Se si restare in sella, se si vuole contare ancora qualcosa in quell’area, bisogna mettersi in scia, cantare in quel coro sperando di essere ascoltati, dimostrare di essere un diligente difensore dei confini nazionali e della superiorità della razza. Non importa esserne realmente convinti: bisogna mostrare di crederci. Una volta del proprio razzismo ci si vergognava, oggi qualcuno si potrebbe persino vergognare di non possederne abbastanza.
Ecco perché per certi politici il razzismo è un dovere. O accettano di farsene interpreti o sono destinati a scomparire dalla scena e dal sottogoverno. Caso 1 o caso 2 non fa differenza.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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