Non vado a vedere una partita di calcio al campo del paese da anni. Per un italiano medio come me, la domenica pomeriggio allo stadio è forse il più soddisfacente tra gli spettacoli possibili. Con gli anni, però, mi è diventato insopportabile sentire branchi di esagitati che dalle tribune augurano tumori galoppanti ai giocatori avversari e mettono esplicitamente in dubbio l’integrità morale della mamma dell’arbitro. Non riesco più a reggere uno sport ridotto a casa di tolleranza: un luogo dove sfogare i peggiori istinti di sopraffazione del prossimo, nel quale augurare la morte ad altri uomini è pratica ammessa ed incoraggiata. Un luogo dove si nega l’evidenza e si perde la ragione. Perciò al campo non ci sono più andato. Due domeniche fa mio padre ha chiesto a mio figlio se volesse vedere la partita con lui. Angelo ha ovviamente accettato. Da quanto mi ha minuziosamente raccontato dopo, credo che Angelo sia stato colpito molto più dal frasario del pubblico anziché dal confronto tra gli atleti sul campo. Mi ha ripetuto alcuni tra gli incoraggiamenti rivolti dal pubblico ai giocatori di casa, tra i quali ricordo un “spezzagli le gambe!”. Era divertito e stupito. Ma anche un pizzico spaventato, cosicché l’invito per andare a vedere la partita, la settimana dopo, non lo ha accettato. Siccome analisti ben più qualificati di me hanno scritto trattati sulla fenomenologia del pubblico calcistico e sulla violenza che esplode dagli spalti come lava da un vulcano, non ho mai pensato di avere qualcosa da aggiungere sull’argomento, né tantomeno di predicare inutili lezioni di sportività ai tifosi. Questa causa può interessare ad un’esigua minoranza, non val la pena spenderci energie, e a me basta non andare allo stadio per esprimere il mio silenzioso dissenso.
L’altro giorno, leggendo L’Unione Sarda, ho intercettato la notizia che riporto nella foto (e che, secondo me, ben altro spazio avrebbe meritato): Jessica Palmas, una delle poche presidenti donna di una squadra di calcio in Sardegna, ha imposto un codice etico ai tesserati del Perdasdefogu: tra le altre regole, anche varie forme di sanzione per chi si lasciasse scappare una bestemmia o cadesse nel turpiloquio. “Ecco, ci voleva la sensibilità di una donna per porre il problema”, mi sono detto. Sarebbe bello se i presidenti delle squadre di calcio seguissero l’esempio di Jessica Palmas e spendessero due parole in più sulla sportività e sulla serena partecipazione allo sport, inteso come spettacolo agonistico e non come guerra tra le civiltà, civiltà di villaggi magari distanti pochi chilometri l’uno dall’altro. Non basta far notare che nello statuto della propria società il richiamo al rispetto dell’avversario è magari riportato a chiare lettere, bisogna che i padroni del calcio ci mettano più convinzione e ne facciano davvero una battaglia – questa sì – di civiltà. Lanciare l’hashtag “una partita senza insulti”, per sintetizzare con uno slogan, Saranno anche le dirette di Sky e il disgregarsi delle società che allontanano la gente dai campi di provincia, ma io penso anche che qualche posto in tribuna in più lo si potrebbe riempire mettendo in condizione molti genitori di sedercisi con i propri figli. Basterebbe vivere la partita con lo spirito di uno spettacolo sportivo, tutto qua. Lo so bene che non è possibile, ma è consolante sapere che non tutti si rassegnano.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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