Parliamo di Bibbiano e non solo. – Settima puntata
Caino è la strada sconosciuta, irta di salite e piante carnivore; è la cattiveria che non riesce a sorridere davanti ad un tramonto, è la trasposizione del male: è la sua banalità, la sua cattiveria estemporanea. Caino è lo schiaffo che non ti aspetti, è la paura che non volevi. Eppure, a seconda di come osserviamo le storie, Caino gestisce molte parti di questa incredibile commedia che è la vita.E nel caso di Bibbiano Caino sembra essere un Giano bifronte che si muove a seconda dell’abito con il quale si utilizza: una volta il populista e l’altra volta il giustizialista dai modi spicci e dalle poche attenzioni giuridiche; entrambi hanno le idee chiaro di chi sia il cattivo quando questo è presentato sul palcoscenico dell’attualità. Non ci sono dubbi: ufficialmente Caino è l’assistente sociale, lo psicologo, il neuropsichiatra infantile, lo psichiatra, il sindaco. Non ci sono dubbi e le sentenze sono emesse in nome di un popolo alla mano. Non si osserva ciò che è stato, si guarda esclusivamente a quello che si vede come davanti ad un iceberg con la convinzione che quella montagna di ghiaccio emersa è piccolissima. Cosa c’è dunque sotto quell’oceano inesplorato? Cosa dobbiamo sapere per capire quanto è grave ciò che è accaduto e in che misura dobbiamo misurarne la gravità? Ci siamo seduti sulla panchina di Abele a dipingere una storia che ha necessità di essere spiegata. Con un’altra storia. Partiamo da un diritto sacrosanto: il minore ha diritto di crescere ed essere educato nell’ambito della propria famiglia. E’ un buon punto di partenza. Un ottimo punto di partenza. Perché al centro della nostra storia c’è il bambino. Il futuro della specie, l’innocenza più assoluta, la speranza di migliorare le scelte a volte errate di chi ci ha preceduto o l’attesa che quel minore ancora incredulo ai rumori della vita sappia, un giorno, assaporare le scelte giuste di un’umanità accogliente, disponibile, inclusiva. Quel bambino è sacro. Non c’è assistente sociale che tenga. O psicologo, neurologo, psichiatra. E neppure sacerdote, maestra, professore. Quel bambino ha diritto di crescere ed essere educato nell’ambito della propria famiglia. Non dobbiamo perdere questo punto di vista. E’ un concetto antropologico, storico, sociologico ed è anche un principio giuridico. E’ il primo articolo della L. 184 del 4 maggio 1983. Una legge che parte dalle radici della costituzione e ricama con amore, con attenzione, con caparbietà articoli a favore del bambino. Solo ed esclusivamente del bambino. Non dimentichiamolo. Chi prova a modificare la rotta del futuro, chi prova a manipolare il cucciolo, a circuirlo, ad abusarne diventa Caino. E’ Caino. Senza alcuna ombra di dubbio. Lo è per noi, per la storia, per l’antropologia, per la sociologia, per il diritto. Quel diritto alla vita, a vivere all’interno di una famiglia è assicurato al bambino sempre e comunque senza alcuna distinzione di sesso, di etnia, di età, di lingua di religione e nel rispetto della identità culturale del minore. Anche questo lo dice la Legge, lo dice sempre quel bellissimo articolo uno, costruito intorno al bambino. La legge ci dice, inoltre, che lo Stato deve provvedere a sostenere e aiutare i genitori che possono trovare in condizioni di indigenza e di difficoltà perché queste non diventino un ostacolo per il minore al diritto alla famiglia. Chi è contro queste regole approvate dal popolo sovrano attraverso il Parlamento è fuori dalla panchina sociale. Da questo dobbiamo partire. La famiglia, però, non sempre è il luogo adatto per far crescere dei bambini. Anche all’interno dei nuclei considerati principali, importanti, necessari, luoghi di aggregazione e d’amore, può accadere qualcosa che può scuotere un bambino. Non piccole cose, non lievi maltrattamenti (che sono comunque disdicevoli e da condannare) ma dentro quella famiglia può annidarsi un Caino che è invece considerato ufficialmente – e fino a prova contraria – l’Abele intoccabile e costituzionalmente adatto per far crescere un bambino. Questo è l’altro punto da analizzare. Quando dentro un nido c’è qualcuno che non riesce a sfamare i propri piccoli è un problema sociale, quando, invece, i propri piccoli diventano attori di attenzioni “particolari”, quando quelle attenzioni diventano abusi, dentro quel nido c’è l’orco e quell’orco è Caino. Difficile entrare e tradurre le lunghe pause o i lievi rumori. Difficile analizzare. Non si comprendono gli uomini con uno sguardo. Sarebbe troppo semplice. Figuriamoci riuscire ad interpretare i silenzi dei bambini, i disegni dei bambini, i sorrisi pallidi dei bambini, le mani ferme dei bambini, le urla dei bambini, le storie dei bambini. Le fantasie dei bambini. Difficile scavare in un terreno mai arato, difficile riuscire a imprimere un tratto sicuro al vomere che non conosce quel terreno. A volte non basta una vita per comprendere le atrocità che sono accadute all’interno di un nucleo ristretto, all’interno di una famiglia, all’interno di quel luogo dove tutti erano Abele. E non era vero. Davanti ad un abuso, una violenza contro i bambini siamo sempre decisi, fermi, risoluti. Sappiamo dove colpire, sappiamo quale deve essere la giusta punizione. Prendiamo per esempio tutte le accuse che sono state rivolte a quelle maestre accusate di aver utilizzato dei metodi educativi poco ortodossi. La nostra condanna (seppure ancora è tutto da dimostrare) è stata praticamente unanime e definitiva: i genitori hanno ritirato i bambini da quella scuola, si sono rifiutati di riportare i propri figli al cospetto di Caino. E probabilmente hanno fatto bene. Si poteva attendere la fine della vicenda, cercare di trovare la verità attraverso un processo dove la difesa avrebbe potuto utilizzare prove a proprio discarico. I genitori hanno scelto per un’altra via, forse più breve, sicuramente poco garantista ma umanamente comprensibile. Al solo sospetto che intorno ad un bambino possa avvicinarsi un Caino e sfiorarlo, al solo ipotetico dubbio non ci mettiamo neppure un attimo a far si che nostro figlio, nostro nipote, possa continuare quell’esperienza. Forse non è così, forse si scoprirà fra qualche anno che c’è stata troppa immaginazione, che le prove non erano così schiaccianti, che le telecamere dimostravano altre verità. Forse. Ma nell’attimo non c’è tempo per essere oggettivi, pacati e riflessivi. Vince l’istinto che porta a difendere sempre e comunque il cucciolo dagli estranei. Come nel caso delle maestre. In questo esempio è stato tutto piuttosto semplice. Ma quando tutto ciò accade all’interno del nucleo familiare? Dobbiamo farci i fatti nostri? Dobbiamo provare a sussurrare che ogni genitore è padrone a casa sua? Se abbiamo anche il minimo sospetto che dentro quella famiglia si annidi un orco, un Caino che facciamo? Lasciamo il bambino nel nucleo in attesa che si decida, attraverso una sentenza la verità? Davvero siamo disposti a questo? Davvero riteniamo che andarci cauti, stare attenti a non interrompere il legame familiare sia l’unica strada da percorrere? No, non lo facciamo. Chiediamo, a gran voce, che quel bambino sia allontanato da quella famiglia, chiediamo, a gran voce, che Caino sia messo in condizioni di non nuocere e chiediamo, con una certa velocità e ferocia che sia sbattuto in galera e sia buttata la chiave. Anche in questo caso nessun garantismo. Caino è genitore, zio, nipote, fratello, è qualcuno che fa parte di quella famiglia. Chi salva il bambino e lo consegna ad una nuova famiglia o una comunità protetta in attesa che si accerti la verità è l’Abele di turno, è l’angelo custode che è riuscito a comprendere, laddove gli altri non erano arrivati, dove gli altri non avevano saputo vedere, ascoltare, dove gli altri non erano riusciti ad interpretare; l’angelo salvificatore che è il giudice che applica la legge, chiede all’assistente sociale di andare in quella casa, prelevare quel bambino innocente e chiede alle forze dell’ordine di arrestare il presunto orco. Le parti sono chiare, definite e definitive. Tutto intorno al bambino, tutto perché quel minore ha diritto di crescere e ha il diritto di non essere abusato, violentato, maltrattato. Poi, non si capisce come, in alcuni casi i personaggi, seppure gli stessi, siano percepiti in maniera diversa. Capita sempre più spesso che quando il giudice prende questa terribile decisione (perché comunque, seppure sia salvifica per il minore è una decisione orribile) diventa esso stesso Caino, insieme all’assistente sociale che “sequestra” quel bambino a quella famiglia in cui aveva diritto di vivere. Tutto si complica e non servono le relazioni degli esperti, qualche prova di una presunta violenza, di un probabile abuso. L’abusato – il minore – passa in secondo piano. Caino si trasfigura e diventa Abele. Cambiano le parti. Questi esempi sono chiaramente degli “eccessi” e fanno parte di una certa enciclopedia leggendaria dura a morire: quella per la quale l’assistente sociale (anche nei film, se notate, difficilmente è interpretata da persona aggraziata) è fondamentalmente frustrata, malinconica, isterica, tendenzialmente cattiva e cinica. Non è assolutamente vero ma è difficile pensare a questa professionista come qualcuno che si adopera quotidianamente per comprendere e leggere una realtà sociale sempre più complessa.
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Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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