A scanso di equivoci. Ho il massimo rispetto per le forze dell’ordine e trovo pazzesco che molti dei loro esponenti debbano rischiare la pelle per le intemperanze delle tifoserie. Detto ciò, trovo davvero inconcepibili le prescrizioni adottate dalle nostre “autorità competenti” per il derby tra Olbia e Torres. Che senso ha autorizzare l’ingresso allo stadio esclusivamente agli spettatori della città ospitante, in questo caso Olbia? Dico appositamente spettatori. Perché non si può pensare che tutti coloro che si recano allo stadio siano hooligans. Se lo si pensa, allora è meglio chiudere baracca e burattini ed eliminare il calcio dalla categoria “spettacoli” e anche dalla categoria “sport”. Tanto vale bandirlo completamente.
Che senso ha impedire a una persona che abita, per dire, a Berchidda di accedere allo stadio dove si gioca una partita di calcio tra due squadre di media classifica della serie D (e qui ci vorrebbe un punto esclamativo)? Insisto. Che diavolo di sport è quello in cui è ormai radicata la consuetudine di riservare certe partite, considerate a rischio, ai soli residenti nella città dove si trova lo stadio, impedendo non solo ai tifosi ma a tutti i cittadini che hanno la”colpa” di risiedere altrove la visione di uno spettacolo al quale dovrebbero avere libero accesso? Può essere la carta d’identità una discriminante?
A me pare che da tempo le “autorità” abbiano alzato bianca di fronte al fenomeno della violenza negli stadi. Oggi i contatti tra le tifoserie vengono evitati con la più radicale delle soluzioni; basta non far arrivare a Olbia i sassaresi (tutti) e a Sassari gli olbiesi (tutti). Ma è davvero la strada giusta?
Al termine del match dell’Epifania, disputato al “Nespoli” di Olbia, tre giocatori torresini e una ragazza sono stati aggrediti e derubati da un drappello di delinquenti. Temo che questo episodio possa essere utilizzato per avvalorare l’attuale sistema di prevenzione per le partite considerate a rischio. A me, invece, fa aumentare il tasso di perplessità, dal momento che l’aggressione diretta a calciatori, per di più nelle vicinanze dello stadio dove si gioca una partita considerata a rischio, credo abbia davvero pochi precedenti. Qualcosa non ha funzionato, evidentemente. E, al di là della speranza di individuare e punire gli autori dell’aggressione, resta il sapore del fallimento, della rassegnazione e dell’abitudine che incombe.
Il calcio, più che uno sport, è un problema di ordine pubblico. Certe partite, un tempo attese anche per lo spettacolo dele coreografie, sono ormai un periodico fastidio, un pericoloso raduno di invasati capaci di tutto. La festa è finita da un pezzo. Ma, essendo il calcio affetto da malattia conclamata, ci si aspetterebbe una cura radicale anziché un continuo ricorso alla prevenzione. Che darà pure i suoi frutti ma a un prezzo troppo alto per tutti gli sportivi, quelli veri, che avrebbero il diritto di godersi una partita di pallone senza limiti di residenza e cittadinanza.
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