Noragugume è un paese sospeso. Molti delitti, pochi colpevoli. Forse una faida, non di quelle classiche. Probabilmente una serie di vendette fra gruppi antagonisti che regolano vecchie leggi non scritte, ma da rispettare. Detta così può sembrare banale. Una faida dove le offese non si trasportano da troppi anni e dove, probabilmente, lo sgarro può essere rappresentato da parole gettate in un vuoto pesante. Un silenzio atavico che regola antichi dissapori? Oppure un regolamento di conti nascosto negli intrecci antropologici mai superati? Per provare a capire occorre partire da lontano. Raccontando una storia che non è leggenda, ma aiuta a gestire quella piccola luce rappresentata da una candela quasi consumata: una storia di uomini e cavalli.
Aveva lo sguardo convincente, soprattutto per il cavallo. Modi spicci e chiari. Partire dalla bizzarria dell’equino non era semplice. Domare non era facile. Soprattutto all’Asinara. Dove solo gli animali racchiudevano nella loro interezza la parola “libertà”. Domarlo significava dunque avvicinarlo agli uomini, ai detenuti, ma una volta reso mansueto si poteva cavalcare e dividere con lui una strada contorta che si fermava, irrimediabilmente, davanti al mare. Anche chi cavalcava subiva una libertà spezzata. Quando arrivò, a Santa Maria, gli occhi incontrarono una vallata gialla e sopra un carcere in bianco e nero: era Fornelli. Intorno, i cavalli. Capì che poteva fermarsi, poteva fermarli. Capì che quel mestiere imparato da piccolo, nella sua campagna, poteva tornare utile. Domare era il prezzo da buttare sul piatto della prigione: era la divisione complessa tra la galera e il colore della terra. C’era finito per una questione di fucili rubati a certi cacciatori. Uno scherzo tra gente troppo allegra, alla vigilia di un Natale. Quei fucili servivano per salutare il nuovo anno, mica per fare alla guerra o per ammazzare qualcuno. Fu il padre, roccia indistruttibile, a presentarsi davanti ai giudici, a chiedere la semilibertà per quel figlio dallo sguardo convincente. Promise attenzione: “Se sbaglia, sarò il primo a riportarlo in carcere”. Così, dentro un giugno giallo come i pensieri limpidi, lui se ne andò. Lasciò Santa Maria, lasciò i cavalli domati e quelli ancora liberi. Non aveva più tempo per loro. La parentesi del carcere era finita. Aveva ventun anni. Era il 1994 e la sua pareva una parentesi completamente chiusa.
Noragugume ha sassi e ricordi sparsi tra poche case e la chiesetta di Santa Rughe. Non ha niente di ciò che può essere considerato un attrazione sociale. I giovani, al massimo possono frequentare la chiesa, il bar, oppure recarsi a Dualchi. Intorno, in quel Marghine solitario, solo colline. Nient’altro. Non ci sono troppi colori a Noragugume e neppure troppe attrazioni. Il lavoro è legato essenzialmente alla pastorizia. Chi sa cavalcare e possiede un cavallo può partecipare, alla fine di maggio, all’Ardia in onore della Beata Vergine d’Itria. Lui, il 25 maggio 2015 per correre intorno al santuario c’era. Gli altri anni era mancato all’appuntamento. Era in carcere. Non per i fucili e i giochi post adolescenziali. Questa volta era stato coinvolto nell’attentato al sindaco di Ottana. Roba grossa. Roba che gli inquirenti etichettano come “salto di qualità”. I passaggi, per la giustizia, sono sempre semplici: se hai commesso un furto prima o poi arrivi alla rapina e continui. Nel crocevia delle opportunità puoi rimanere coinvolto in mezzo al sangue. Anche se la tua è storia di uomini e cavalli.
Un paese così piccolo per puntiglio era riuscito anche a dividersi in rioni. Roba d’altri tempi. Ma la divisione rimase quasi esclusivamente per la corsa dell’Ardia: i rappresentanti tentavano, infatti, di conquistare il drappo della Vergine che guidava la corsa, per avere poi il grande onore di presentarsi con il drappo stretto alle celebrazioni dell’anno successivo. Aveva lo sguardo convincente, soprattutto con il suo cavallo. Non c’era polvere e non c’era sudore in quel momento. Sapeva partire e sapeva prevedere l’attimo esatto in cui spronare l’animale, il momento sublime per farlo curvare e per portarlo avanti. Correre contro il tempo e contro la vita. Una vita consumata tra la polvere e il carcere. Stufo di dover contare i passi in un penitenziario che non aveva più i cavalli. L’Asinara era stata chiusa. Quattro anni d’inferno nelle carceri sarde, ad attendere una risposta che arriva proprio a maggio del 2014, a ridosso dell’Ardia. Dopo una condanna a dodici anni, la Corte d’Appello di Sassari aveva ribaltato la sentenza e lui era stato assolto. Fuori dal carcere ad inseguire la vita, a cavalcare più forte e con urla che regalavano la libertà.
La vita raccoglie i momenti e li centrifuga. Difficile costruirsela come si vuole, la vita. Ti insegue e non si scompone. Sembra imprevedibile ma ha un disegno: che non è il nostro. Aveva provato ad addolcirla: matrimonio e due figli. Poi le passioni si diradano e le strade si dividono. Ma solo apparentemente. Ancora il suo nome che ritorna tra i possibili mandanti di un delitto: un allevatore di Silanus ucciso con un colpo di pistola davanti alla sua abitazione, davanti alla sua compagna: la donna della vittima era, incredibilmente, il suo vecchio amore. Non era una questione di fucili e di attentati. La posta si era alzata. Omicidio. Anche qui, in un territorio viscido bisognava uscirne e provare a raccontare una storia di uomini e cavalli. Ma non c’è stato tempo. Il cavallo non si è presentato al lungo fischio del domatore. Giampietro Argiolas, 42 anni, è stato ucciso mentre rientrava a Noragugume, alla guida di un camioncino Fiat Iveco. E’ morto tra la strada che collega Borore a Ottana. Non lontano dal paese ma lontanissimo da un mondo che non lo ha mai abbracciato. Perché in Sardegna si continua ad uccidere quasi indisturbati, senza che si riesca quasi mai a consegnare gli assassini alla giustizia e a comprendere le motivazioni di un gesto atroce e terribile? Probabilmente da altre parti ci sono altre mattanze, ma hanno radici diverse e, a volte, anche interessi reali, comprensibili a tutti. Apparentemente si muore per caso in quest’isola. Oppure si muore perché si è segnati dal destino. A Noragugume c’è la faida e mentre lo diciamo sappiamo benissimo che si tratta di altro. Un altro che fatica a dipanarsi dentro le anime di un paese racchiuso in dieci condomini di una via popolosa di Cagliari. La risposta, probabilmente, è legata ai cavalli. A quel desiderio intrinseco di libertà contrapposto alla nostra follia di doverli domare per forza. Occorre avere uno sguardo ben disegnato per camminare con i cavalli. Riuscire a fermarli in tempo e riuscire a farli ripartire ai nostri ordini. Ma i cavalli non amano essere domati. Però, paradossalmente, ritornano sempre in quei recinti che hanno conosciuto in tempi di cattività. Partire dai cavalli significa partire dalla campagna, dai recinti e dalle regole. Tirare le briglie ai cavalli per provare a comprendere gli uomini. Un cavallo non dimentica due cose: il domatore e la prateria. Ma, alla lunga, sceglie sempre la libertà.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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