Quei mezzi militari in processione non sono soltanto la fotografia di un disagio, di un qualcosa che è andato storto. Quei mezzi militari che trasportano uomini dentro una bara sono il segno di una sconfitta. Rappresentano la distruzione dei costrutti sociali e antropologici, sono la distruzione di un rito, quello della sepoltura, antico come l’uomo. Lo dico perché ricordo quello che confidò la signora Bussu, vedova dell’ingegnere rapito in Sardegna nel 1978 e mai ritornato a casa: “Ho quasi invidia delle mie amiche, parenti, conoscenti che accompagnano i loro cari al cimitero, che riescono a dargli l’ultimo ed estremo saluto. Le invidio perché io non so, ancora oggi, dove sia mio marito, dove siano le sue ossa. Non lo so e ogni anno vengo in Sardegna che ritengo l’enorme tomba del mio caro”. Si sono sentiti così i parenti, gli amici, i conoscenti di quelle troppe vittime falcidiate dal corona virus cui è stato negato il funerale, l’ultimo addio. E, di contorno, si son sentiti così anche i parenti, gli amici, i conoscenti di persone decedute di questi tempi e per altri malanni sepolte anch’esse senza neppure un solenne momento funebre laico o religioso. Nessuno. E’ vero, attraversiamo questa terra con intensa e tiepida leggerezza ma appare davvero inverosimile che molti dei familiari non sappiano dove siano finiti i loro cari, in quale luogo terreno è possibile piangerli o ricordarli. E’, forse, la cosa più terribile che sia accaduta dai tempi della guerra, dai dispersi in Russia, in Grecia. Sembrano tutti partiti, all’unisono, verso una collina indefinibile e indefinita. La nostra tradizione – ma non solo nostra, ogni comunità ha le sue ferree e rispettabilissime regole – prevede una saluto speciale per chi parte definitivamente verso l’orizzonte sconosciuto. Un saluto che raccoglie anche l’affetto di chi, in terra, a quella donna, a quell’uomo ha voluto bene o – e a volte accade – poter portare l’ultimo saluto anche a alla persona con la quale ci sono stati degli screzi, delle incomprensioni che la morte ha livellato. Certo, ci sono i protocolli, le limitazioni dettate dall’emergenza e sono dunque giuste, sacrosante. Certo, è con il cuore sotto le scarpe che è stata presa questa decisione. Quando si muore si muore soli, diceva il grandissimo Fabrizio De André, ma un accompagnamento verso la collina dove tutti ora tranquillamente dormono doveva essere concesso. Ecco cosa non perdonerò a questo maledetto virus: la possibilità di poter salutare un proprio caro nella forma antropologica e sociale migliore. La possibilità di un abbraccio, l’ultimo, di un saluto e di un canto, magari a voce bassa, che tutti, ma proprio tutti che son passati sulla terra leggeri meritano. Oggi per molti di questi defunti di corona virus sembra aleggiare quello che ricordava la vedova Bussu: “l’intero paese è divenuto il cimitero di questi morti”.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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