Quando il generale americano Eisenhower giunse presso i campi di concentramento, verso la fine della seconda guerra mondiale, fece una cosa inaspettata. Ordinò che quello scempio, quell’ammasso di corpi nelle fosse comuni, quel filo spinato, quei forni crematori, quei gruppi di superstiti ridotti a pelle e ossa, fossero filmati, fotografati, testimoniati, documentati in tutti i modi. Eisenhower vinse quella naturale repulsione a violare il rispetto verso i morti, e verso i vivi ridotti in quel modo, ma lo fece per uno scopo ben preciso.“Perché arriverà il giorno in cui qualche idiota si alzerà e dirà che tutto questo non è mai esistito”, disse.Aveva ragione. Infatti tempo dopo si sviluppò il movimento negazionista, dilagato in tutta Europa, al seguito di storici che si definiscono revisionisti, ma che in realtà sostengono idee di stampo razzista, antisemita e di estrema destra.Vi sono tanti modi di negare la storia. Io stesso ho scritto un libro su uno dei più clamorosi casi di oscurantismo storico, quello della Sardegna dell’età del bronzo, spiegabile con motivazioni legate ai processi di acculturazione nazionale e ai rapporti tra aree geografiche di diversa forza economica e politica.I casi di negazionismo della Storia negano soprattutto il fenomeno del genocidio nelle varie epoche, come quello degli ebrei e degli zingari durante la seconda guerra mondiale, o quello dei nativi americani, spesso perché proprio su quei genocidi si sono fondate intere nazioni, che poi producono la scrittura del testo storiografico. Per stare a quanto accade oggi, il genocidio lento ma inesorabile dei palestinesi potrebbe far pensare a qualche forma di negazionismo.Il negazionismo sembra, tuttavia, riemergere con il tempo quando i fatti iniziano a scolorire nella memoria, e i dati della storia diventano meno difficili da manipolare.Per la prima volta nella storia, ci troviamo di fronte ad un fatto nuovo. Con la pandemia del Covid 19, si è assistito ad una forma di negazionismo che ha iniziato a manifestarsi, in maniera consistente, durante l’evento stesso.La prima forma di negazionismo è stata quella di nazioni o regioni che, fino all’ultimo hanno aspettato negando il maremoto che li avrebbe certamente travolti, finendo per agire con grave ritardo e portando alla morte e alla malattia un numero enorme di persone. Il rispetto per le libertà individuali, presunzione, bislacche teorie scientifiche, senso di superiorità nazionalista, e soprattutto la pressione del mondo economico, hanno impedito a molte nazioni, e anche a regioni come la Lombardia, di intervenire tempestivamante con le restrizioni, cosa che si è rivelata efficiente in maniera inequivocabile ed evidente.Ma mentre i superstiti iniziano a raccontare i loro drammi di sopravvissuti, le voci insistenti di chi sottilizza, manipola le cifre più o meno inventate, interpreta con cinismo e scetticismo le montagne dei cadaveri e lo strazio dei sopravvissuti, crescono. Sembra essere una forma di negazionismo del tutto nuovo, più legato alla moderna informazione, o infodemia, e all’ormai noto fenomeno del “complottismo”, lo stesso che da tempo mette in discussione vari fatti della storia come del tutto inventati. Una sorta di moda che ha reso questo periodo dell’eccesso informativo come quello della “post-verità”.Senza indugiare nelle teorie più bislacche, che fanno anche sorridere per i contorcimenti, fantasiosità e ingenuità, ciò che è davvero straniante sono gli atteggiamenti di forte scetticismo, per non dire di negazionismo, che provengono da parti ideologicamente strutturate dell’opinione pubblica, e anche da un nutrito fronte di “intellettuali”.Si potrebbe dire che, nel caso in questione, il negazionismo non è solo il frutto della sottocultura complottista, non è solo l’esito di ideologie estremiste che oggi ritroviamo nelle frange di estrema destra o nei travestimenti con gilet arancioni, ma anche una sorta di mantenimento di uno “status” sociale, di ostentazione culturale per potersi definire davvero voce critica del sistema, paladini dei diritti individuali, alternativi alla massa ubbidiente e acritica.Insomma, per molti l’ostentazione dello status di alternativo e critico al sistema “oppressivo” più visibile, quello dello Stato, equivale al motto “se non neghi la pandemia non sei nessuno”. Pazienza se, così facendo, ci si allinea a ben altri poteri meno visibili, per non dire, per davvero, “oscuri”, come un certo potere finanziario, industriale, economico insomma, che abbiamo visto schiacciare i diritti della salute, dei lavoratori, dei cittadini, per la brama di non fermare l’economia e far ripartire tutto.Il negazionismo moderno si nutre anche di una mancanza di empatia che si era già notata in tempi di drammatici naufragi di immigrati. Su questo andrebbe fatta una riflessione su quanto lo Stato moderno, istituzionalizzando la solidarietà, abbia provocato, insieme alla mercificazione delle menti operata dal consumismo, una forma di dispatia su quanto accade al prossimo. Vecchi e malati colpiti dal coronavirus sono gli “altri”; vecchi e malati sono i nuovi migranti, i nuovi naufraghi.Ma trascurando considerazioni che meriterebbero un apposita analisi su aspetti della società che, in tempi di coronavirus, sono emersi ancora più di prima, mi interessa in questa sede soffermarmi su un’osservazione che mi pare utile per comprendere il fenomeno del negazionismo, o comunque di tutti quegli atteggiamenti di scetticismo che tendono a minimizzare, o anche solo a essere ipercritici con misure sanitarie che, per quanto migliorabili con il senno di poi, hanno comunque salvato vite umane a centinaia di migliaia.Torniamo dunque all’informazione e al suo ruolo di mediatore tra l’evento e la percezione che ne ha il cittadino.Abbiamo accennato al fatto che la ricerca del “click” e dell’audience ha fatto perdere di vista alcuni pilastri deontologici dell’informazione. Tuttavia, la stessa informazione non è venuta meno al rispetto per la dignità e per la sofferenza delle persona, anche per le precise norme che regolano la riservatezza e la cosiddetta “privacy” nella diffusione delle immagini.Tuttavia è proprio la diffusione delle immagini che scuote le coscienze. Le immagini “arrivano” al cuore e alla menti della gente, in una società che legge sempre meno, molto più delle parole.Il 3 settembre del 2015 il mondo parve scuotersi di fronte al fenomeno drammatico delle avventurose traversate del migranti nel Mediterraneo, con il loro tragico contorno di naufraghi e di stragi silenziose. Una foto aveva risvegliato la coscienza della gente, o almeno di quella gente che una coscienza aveva. Era la foto del piccolo Alan, naufragato insieme alla famiglia in uno di quei avventurosi viaggi, riverso in una spiaggia.In giorni scorsi grande scalpore ha suscitato la morte di George Floyd, l’afroamericano brutalmente ucciso dalla polizia durante un normale controllo a Minneapolis, negli USA. La brutale uccisione ha avuto un eco in tutto il mondo, e dagli USA le proteste si sono diffuse in tanti altri paesi. La morte di Floyd è diventata un simbolo della lotta per i diritti civili e l’antirazzismo.Ma è stata la morte di Floyd, o le drammatiche immagini del suo assassinio, diffuse in un video che ha fatto il giro del mondo, a sollevare questa generale rivolta delle coscienze?A giudicare dal fatto che a marzo dello stesso anno, era già morto un afro-americano in una situazione simile, ma senza alcun risalto, viene da pensare che ciò che colpisce, e che scatena la reazione, è l’immagine, e non la notizia.Ciò che scatena la reazione è dunque l’immagine, più di mille notizie, più di mille statistiche. Gli esseri umani reagiscono a impulsi emotivi, e non razionali. Finché si dice che ogni anno negli USA muoiono centinaia di afroamericani uccisi dalla polizia, sono poche le coscienze a scuotersi; si scuotono, con un effetto da reazione a catena esponenziale, di fronte all’immagine di uno solo di loro, ma che inonda il web e i canali TV come una chiazza d’olio.Le neuroscienze da tempo spiegano come la vista di una persona sofferente, o in difficoltà, ovvero una situazione in grado di provocare un sentimento di pietà, produca delle reazioni celebrali che mutano lo stato emotivo della persona. Si attivano parti del cervello che altrimenti, con la sola notizia, restano dormienti. Esperimenti compiuti con persone il cui cervello veniva monitorato dagli strumenti che registrano l’attività cerebrale, mostrano infatti che la semplice descrizione della situazione in cui versa la persona in difficoltà, non produce gli stessi effetti sul cervello dell’immagine, a maggior ragione se corredata del suono.Tutta la chimica neuronale che si scatena allorché si assiste di persona ad un evento idoneo a creare un senso di pietà, o una reazione emotiva di qualunque tipo, tende ad attivarsi di fronte alle immagini, piuttosto che alle informazioni.In questi mesi di pandemia siamo stati travolti da una montagna di grafici, statistiche, dati, informazioni su quanto stava accadendo.Il triste elenco delle persone decedute, o delle persone in rianimazione, echeggiava continuamente, sinistro, nelle nostre case.Tuttavia restavano numeri, cifre, statistiche, una sequenza di persone senza volto e senza storia.Fatta eccezione per qualche fotogramma di medici o infermieri distrutti dalla fatica, le immagini sono rimaste fuori dagli ospedali, dalle corsie trasformate in sale di rianimazione, dalle sale d’aspetto di pronto soccorso dove la gente moriva prima di essere visitata, per non parlare delle rianimazioni degli ospedali affollate di pazienti in condizioni disperate, intubate per la bocca, riverse a pancia ingiù, collegate da un groviglio di fili ai monitors, ricoverate per giorni, se non per settimane, con infermieri e medici trafelati per salvarne in maggior numero.Qualche fotografia dai volti oscurati, invero, è passata; ma sono rimaste lì, appese alla coscienza degli impressionabili, senza diventare “virale”, scusando il bisticcio di senso.E in una società che si lamenta continuamente di essere stata “terrorizzata”, continuare a diffondere quella strage silenziosa, forse, non era il caso. Però è giusto dirlo, senza immagini, per chi vuol capire. Oggi diciamo di esserne “quasi” fuori, e ci diciamo che il peggio è passato. Però, solo in Italia, muoiono ancora decine di persone tutti i giorni.E’ giusto così. E’ giusto stare fuori dalla sofferenza, e rispettare la dignità delle persone e dei loro cari che hanno attraversato questa tempesta. E’ giusto provare a rinascere dopo tanta paura, a far ripartire l’economia, a tornare alla normalità, ora che sembra che almeno la conoscenza di questo mostro ci possa ritenere, se non proprio al sicuro, almeno ragionevolmente esposti a rischi calcolati.E’ giusto non mostrare le immagini degli obitori, dei pianti di parenti e amici, dei cadaveri ammassati nelle zone travolte dalla tempesta.Tuttavia, chi vuole sappia che questa società, che ha santificato il rispetto e i diritti per l’individuo, rischia di essere sempre di più la società di quella “post-verità”, che poi, se vogliamo estremizzare un po’, è un eufemismo per dire dell’ignoranza crassa e dell’opportunismo strumentale che ne consegue.Sta ai cittadini coscienti coniugare al meglio diritti degli individui e memoria, per non dimenticare ed evitare di rifare gli stessi errori, per non rifare quello che è stato fatto nella Bergamasca, negli ospedali e nelle case di riposo, e che poi abbiamo visto replicato allo stesso modo, assurdamente, in tante altre parti d’Europa e poi del mondo.Sapere quel che è successo, per non rifare gli stessi errori, che poi è la cosa che conta.Perché, come disse a suo tempo Eisenhower, “arriverà il giorno in cui qualche idiota si alzerà e dirà che tutto questo non è mai esistito”.
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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