Guardo quel pezzo di pianura mista a nebbia che intende nascondere le cose e m’incammino. Piedi duri, che non si muovono. Dentro queste stanze bianche e solitarie si respira un’aria rarefatta, sospesa, senza nessun apparente rumore. Studenti che osservano uno strano ammasso di metallo,che sembrano voci che si inchiodano nel ferro, sembrano mani che non riescono ad abbracciare. Poi, avanti, per un sentiero, a inspirare solitudine, sentire solo foglie che si muovono, sentire solo i passi che si incrociano.
Non fa molto male, penso. Siamo forse anestetizzati dagli eventi, siamo anche abituati. Non fa male dico, mentre cammino in questo viale segnato dal tempo, con piccoli rettangoli vuoti, quasi senza senso. Alla fine di questo lungo e forte cammino osservo quegli strani prati senza erba e senza nessun’altra vita. C’erano i capannoni, dicono, quello era per i preti, quello per gli omosessuali. Comincia a far male e l’anestesia non funziona. Arriviamo a sorpassare una siepe e il silenzio squarcia il rumore delle foglie. Sono stanze vuote, bianche, illuminate di occhi che son passati. E si sono fermati. Sono le camere a gas, dicono. Allora capisco e il dolore che sale e le lacrime che segnano un punto di non ritorno e lo sgomento e l’impotenza e allora allora allora allora tutto questo è accaduto. In questo luogo, pianura amorfa, si scatenava l’inferno, si costruivano scie di uomini da ammazzare per il solo fatto di essere “ebrei”. Allora ascolto e quel silenzio si traduce in passi e in mani che ti toccano e tu ti scansi e ti toccano e tu chiudi gli occhi e vedi, sei costretto a vedere l’orrore. Quel rumore forte che produce la carne quando vibra e non può difendersi. Quel rumore sordo che produce il pianto che non si libera, quel rumore assurdo che sembra un sibilo, un silenzio consistente, che fa il gas quando esce da quei muri bianchi. E sporchi. Ecco il ricordo che riaffiora e che non fugge, ecco i corpi che si solidificano davanti a quei forni, a quelle camere, a quella inutile pianura, a quella vergogna che lentamente tentiamo di evirare dalla memoria ma che, lentamente, con energia, con risolutezza, riappare.
Esco da quello scenario che è morte, che è storia. Esco ma lo porto dentro. Quando vedi un campo di concentramento ti rendi conto di quanto può essere terribile la forza dell’orrore. E lo sconquasso delle coscienze. Ti rendi conto che la stella di David brilla sulla pelle di tutti. Ti rendi conto che ti brucia la coscienza e non stai bene. Per niente. Ti rendi conto che l’odore della morte è denso e non fugge alla memoria. A chi vuole conservare la memoria. Per non dimenticare e per poter dire che questo non può essere ripetuto. Provate a camminare sull’erba alta del campo di concentramento di Dachau, camminate lenti e chiudete gli occhi. Sentirete l’odore acido dell’odio e il sudore e le lacrime e i corpi esili e le anime calpestate. Sentirete e capirete il valore alto della vita.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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