Nell’ottobre di questo anno sono incominciati i lavori per la costruzione dell’ottavo argine della discarica per rifiuti tossici di Genna Luas, della Portovesme srl, a due chilometri da Iglesias. Esso sarà lungo 894 metri e alto 5 metri, e si appoggerà sulle scorie abbancate del settimo anello.
Il nuovo anello, spiega il consigliere di maggioranza Valentina Pistis in una interrogazione in Consiglio Comunale a Iglesias, porterà ad un ampliamento della gamma di rifiuti trattati.
Dalla lettura della Deliberazione n.17/29 del 15 maggio 2014 della Giunta Regionale, infatti, si evince che il progetto in ampliamento prevede l’inserimento di nuovi codici CER, cinque dei quali pericolosi, miscele bituminose, fanghi prodotti dalle operazioni di risanamento delle acque di falda, fanghi contenenti sostanze pericolose dal trattamento dei reflui industriali, e altro ancora.
Acque di falda che, nella zona, hanno raggiunto livelli di inquinamento preoccupanti.
Nel sito di Repubblica.it c’è una inchiesta di Marco Corrias sulla pesante eredità dell’inquinamento nelle aree sulcitane.
Interi reparti di lavoratori dove chi è ancora vivo è considerato un sopravvissuto. Discariche a cielo aperto, fanghi rossi da dove si sollevano nubi tossiche e nocive, esito di industrie abbandonate, come l’Euroallumina, e mai messe in sicurezza.
Nell’inchiesta di Corrias si legge:
“Poi, mentre le miniere chiudevano una dopo l’altra, sono arrivate le ciminiere fumanti che fino a qualche anno fa sono state garanti di un patto scellerato tra la gente del posto e gli industriali: occupazione e benessere in cambio di mano libera nella devastazione ambientale. L’ultima indagine del ministero dell’Ambiente denuncia valori di veleno con picchi stratosferici rispetto ai limiti, che segnaliamo tra parentesi. Nelle falde superficiali il cadmio è 125.000 milligrammi per litro rispetto ai 5 previsti come limite massimo; il mercurio 550 (1); l’arsenico 609 (10); il tallio 341 (2); i fluoruri 34.359 (1500); il nichel 214 (20); il piombo 29.6 (10). Non meno grave la situazione nelle falde profonde. Zinco 3.134.000 (3.000); manganese 312.000 (50). E in superficie, dove tutti questi veleni, oltre a zinco, rame, policiclici aromatici e l’immancabile arsenico, sono distribuiti in quantità industriali oltre ogni limite consentito. Gli effetti sulla salute della popolazione e dei lavoratori sono ben segnalati da un recente report della Regione Sardegna. Negli ultimi 20 anni i morti per malattie respiratorie nella zona sono stati 205 sui 125 previsti, e i tumori polmonari hanno avuto un incremento del 24 per cento. Senza contare gli screening sui bambini di Portoscuso che hanno sempre evidenziato tassi di piombo nel sangue molto superiori alla norma.”
Intanto, una dietro l’altra, le fabbriche della zona chiudono, lasciando una pesante eredità ambientale. L’ideologia di uno sviluppo basato sulla produzione, che non ha mai considerato l’impoverimento provocato dai danni ambientali, ha prodotto questo, dai piani di rinascita in poi.
Meglio un uovo oggi che una gallina domani. Il domani è arrivato.
Oggi il risanamento di quelle aree ha un costo altissimo, e forse, con il senno di poi, l’aver esortato, finanziato, incentivato quelle industrie non è stato un grande affare.
Se escludiamo il colosso del gruppo SARAS, in Sardegna, ormai l’industria pesante, tanto incentivata e sbandierata come modello di sviluppo, è al tramonto. Chiusa l’Eurallumina, chiusa l’Ex Enichem a Portotorres (in attesa della riconversione della tanto auspicata quanto temuta chimica verde), chiusa ormai anche l’Alcoa, non resta che la Portovesme srl controllata dalla multinazionale Anglo – Svizzera Glencore, una delle più grandi del mondo nel suo settore, la stessa che ritroviamo in quei gironi infernali che sono le miniere sudamericane e africane.
In Sardegna resta una fabbrica che, almeno all’apparenza, sembra più attiva nella gestione dei rifiuti che nel trattamento vero e proprio dei metalli.
Non ci sarebbe niente di male nel trattamento e nel recupero di sottoprodotti dal ciclo dei rifiuti. E’ una attività altamente remunerativa ed ecologica. I rifiuti sono una risorsa, se gestiti bene e, soprattutto, se non producono inquinamento e se non consumano territorio in materia spropositata.
Ma desta preoccupazione l’attività della Glencore, che ricava minerali pesanti dai cosiddetti “fumi di acciaieria”, scarti di lavorazione della siderurgia, ormai l’unica attività della grande fabbrica sulcitana. Da mille tonnellate di quelle polveri altamente tossiche e cancerogene, si è passati, con accordi alla quale la Regione non si è mai opposta, al trattamento di 300 mila tonnellate di fumi provenienti da tutta Europa finanche all’Est europeo, con la previsione di una ulteriore deroga verso i 400. I residui di questa lavorazione, dalla quale si ricavano minerali come lo zinco, vengono abbancati nella gigantesca discarica di Genna Luas, il quale ampliamento desta notevoli preoccupazioni, perché ormai ha raggiunto i campi agricoli.
Preoccupazioni manifestate fin dalla sua lontana costituzione, fine anni ‘90, quando il Comune di Iglesias si oppose, giungendo fino a presentare un esposto presso la Procura della Repubblica di Cagliari, per i rischi di inquinamento delle falde acquifere che alimentano la città di Iglesias.
La velocità con la quale si amplia la discarica è proporzionata all’aumento dello smaltimento della materia nella fabbrica.
E’ in costruzione l’ottavo anello, che in teoria doveva essere l’ultimo, ma già i vertici della società parlano, in prospettiva, di ulteriori ampliamenti.
Ma perché nessuno, e tanto meno la Regione, ha posto un freno a questo colosso, a questa discarica divoratrice di territorio, così rischiosa, nonostante le rassicurazioni dei vertici della Portovesme srl, per la salute pubblica?
La risposta sta in una cifra, in un numero: 1500.
Millecinquecento buste paga, sacrosante e benedette in un periodo di crisi come questo.
Ma ciò impone, comunque, una riflessione.
E’ chiaro che la multinazionale persegue una politica tipica. Resta in Sardegna finché gli conviene, ovvero fino a che i permessi per la discarica vengono rilasciati. In questa ottica, si parla anche di acquisto della ormai fabbrica decotta ex Alcoa da parte della stessa multinazionale, per quella che appare come una trattativa complessiva che vede al centro, come sempre, il bisogno di garantire un futuro ai lavoratori.
Ma prima o poi questa gigantesca discarica, questo mostro tentacolare si dovrà pure fermare, non potrà sommergere i campi coltivati e i centri abitati. Per quanto ancora legittimamente potrà essere ampliata?
Sono domande che pongono pesanti interrogativi sul futuro dell’area e dell’intera Sardegna.
La Sardegna, per ragioni storiche, sembra essere finita nella parte del sistema mondo destinato alla produzione di materie prime. Che è la parte del mondo più sacrificata e meno sviluppata.
In teoria non dovrebbe essere così, visto che appartiene alla parte “ricca” e centrale del sistema, almeno nominativamente.
In passato, la Sardegna ha fornito legname e minerali per l’infrastrutturazione industriale dell’Italia e non solo. Oggi sembra che la materia prima in grado di offrire l’isola sia il suo territorio.
In una Europa dove si consuma territorio a velocità folle, la bassa densità abitativa sarda offre aree libere per lo smaltimento dei rifiuti, per ingombri come le servitù militari e per quelle forme di produzione di energia che occupano grandi distese di suolo.
Alla Sardegna si chiede, continuamente e storicamente, territorio da consumare.
E’ chiaro che, sei il ruolo assegnato alla Sardegna è questo, attività remunerative come l’agricoltura specializzata o il turismo di qualità, fondato sulle prerogative storiche, culturali e naturalistiche, non convergono verso quell’idea di sfruttamento camuffato da sviluppo.
Ecco dunque emergere il fastidio e la sottovalutazione per tutto ciò che devia da quell’interesse principale, ben sostenuto da centri di potere economico e dunque, di conseguenza, politico.
Riconvertire senza sacrifici un intero modello di sviluppo non è facile, ed occorre una convergenza di intenti, una solidarietà tra ceto dirigente e popolazione che, al momento, non si vede all’orizzonte.
Nel frattempo, una giovane e battagliera consigliera comunale di Iglesias chiede poche e semplici cose: chiarezza e tutela della salute. Controlli, controlli pedissequi e non lasciati alla discrezione del privato, analisi e campionatura, in particolare, delle acque. Massima attenzione per quello che entra, perché in passato si sono segnalati anche casi dell’ingresso in discarica di rifiuti radioattivi.
Il traffico dei rifiuti, si sa, è una delle maggiori piaghe del diritto internazionale e alimenta la criminalità organizzata di mezzo mondo.
Massima attenzione, dunque.
Nel mentre, non sarebbe male provare a ripensare un modello di sviluppo che non concepisca la Sardegna ancora, sempre e comunque, come lo sgabuzzino del mondo.
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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