Non esisteva il 118. Se ti serviva un’ambulanza dovevi chiamare i vigili del fuoco. E così, alle 2 del mattino, entrai nella gelida cabina telefonica di piazza Marconi – perché neppure i telefonini esistevano ancora – e li chiamai.Primi di gennaio, ricordo che la città riprendeva a vivere normalmente dopo un’edizione di feste di fine e inizio d’anno particolarmente vivaci. Non so più perché. C’era allegria, forse c’erano soldi in giro, era il primo anno, mi sembra, che il Capodanno qui da noi si festeggiasse in piazza. Ma quella notte tutto era già finito. Tornavo a casa alla fine di una giornata di lavoro. C’era quel silenzio ovattato che la neve o il gelo riescono a dare alla notte. Sentivo solo i miei passi nonostante le suole di gomma.All’incrocio tra viale Italia e via Amendola udii un rantolo.L’avete mai sentito il rantolo di un moribondo? Vi auguro di no. Non è bello. A me, un po’ per questioni di lavoro – un cronista ne vede di tutti i colori – e un po’ per questioni personali, è accaduto. Non dovete pensare a un sospiro flebile, a un affanno appena udibile nell’agonia. Si sente, eccome! E’ un qualcosa di disperato, sembra che nell’incoscienza del coma qualcuno urli perché non vuole andarsene, perché nonostante la sofferenza vuole continuare a vivere.Mi guardai intorno a vidi un fagotto di stracci sull’ultimo dei tre gradini che portavano al portoncino di una palazzina. Gli presi una mano e se non avessi udito il respiro affannoso avrei pensato che era già morto: era freddo e rigido. Un barbone. Era avvolto in un cappotto di chissà chi, indossava una cuffia da donna con paraorecchie e sopra la cuffia un cappello con la visiera. Ancora non c’erano immigrati africani. Forse era europeo, forse italiano, forse sassarese. Non potevo sapere, lui non parlava, rantolava.Gli diedi uno schiaffo timido sulla guancia che non poggiava sul gradino, poi lo accarezzai, lo scossi, continuava a rantolare.Corsi alla cabina, allora non uscivo in strada se non avevo le tasche colme di gettoni. I cronisti dovevano fare così. Dissi al centralista, che conoscevo-Un barbone, sta morendo, forse lo troverete morto.Lui, con il puntiglio fiero dei vigili del fuoco, mi rispose-Non credo, vedrai che arriviamo in tempo.E dopo pochi minuti erano lì con l’ambulanza. Mentre lo caricavano sulla lettiga, vidi che uno di loro, con la burbera scusa di un esame superficiale dello stato, gli toccò una guancia, come me. Ma non mi fregò, quella era una carezza, quello era affetto verso uno sconosciuto.Li salutai mentre partivano verso il vicino ospedale, senza sirena, sarebbe stata inutile, non c’era un’auto in giro.L’indomani chiamai il posto di polizia del pronto soccorso. Il barbone era morto. Polmonite. O qualcosa del genere. I medici lo avevano assistito per tutta la notte ma all’alba se n’era andato. Avevano svegliato uno specialista che era corso in ospedale. Tutte le avevano tentate. Ma inutilmente.Un’infermiera, mi raccontò il poliziotto, aveva pianto.Ecco. Io credo che in questo mondo noi continuiamo a esistere da milioni di anni perché siamo fatti così. Perché, a differenza di molti altri animali che non vivono in branco, siamo solidali.Perché il nostro istinto è quello di coprire uno che ha freddo, non di buttare la coperta.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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