Oggi che è il giorno della Liberazione e che qualcuno dirà, o avrà già detto, che “Mussolini ha fatto anche cose buone”, vi racconto la storia di una liberazione mai avvenuta: quella di Ida Dalser, morta in un manicomio di Venezia nel 1937. Cinque anni prima di Benito Albino, il figlio, morto appena ventiseienne, anch’egli in un manicomio.
Ida e Benito erano, rispettivamente, presunta moglie e figlio di Benito Mussolini, al tempo non ancora Duce. Ma che Duce lo era pienamente quando madre e figlio finirono i loro giorni in prigionia, in due diversi istituti psichiatrici. È una storia poco conosciuta, quella della relazione semiclandestina tra il futuro dittatore e l’estetista, titolare di un salone di bellezza a Milano: poco conosciuta perché se ne parla poco, perché ancora oggi si tende a raffigurare Mussolini come un uomo tutto sommato incapace di volere o far male ai suoi affetti. Marco Bellocchio da questa storia ne ha fatto un film: “Vincere”, anno 2009, quasi snobbato dalla critica.
La vicenda è questa. Nel 1915 Mussolini conosce Ida, trentina, di qualche anno più grande di lui. Lei è un’imprenditrice di una certa fama grazie al suo salone di bellezza, una vera novità per i tempi, lui un ambizioso giornalista che sta abiurando i suoi ideali socialisti. Si piacciono, si scrivono lettere, si frequentano. In quello stesso anno, Ida resta incinta e a novembre nasce il frutto di quella relazione: si chiamerà Albino Benito. Mussolini lo riconoscerà l’anno dopo. Qua la storia si complica: secondo alcune fonti, Benito avrebbe anche sposato con rito religioso la Dalser, secondo altre no, non essendo mai stato trovato un certificato di matrimonio. Però c’era un problema, un serissimo problema. Benito senior da qualche anno prima è legato a Rachele Guidi, sua compaesana, conosciuta alle scuole elementari di Predappio: lui era maestro supplente – sostituiva la madre, anche lei insegnante – Rachele un’alunna. Rocambolesche le circostanze che originarono la loro relazione: il padre di Mussolini, dopo la morte della moglie, si portò a casa come nuova compagna la madre di Rachele. Cosicché Benito e Rachele presero a condividere gli stessi spazi. Ma lui vedeva in lei non una sorellastra, bensì un’amante, arrivando persino a minacciare il suicidio pur di poterla avere, viste le comprensibili resistenze in famiglia. L’amore trionfò ed era ancora ufficialmente in vigore quando Benito Mussolini conobbe Ida. Secondo certa storiografia, lui più che innamorarsene si innamorò delle sue floride finanze. Aveva bisogno di tanto denaro per sostenere la sua carriera di giornalista e politico. Lei fu generosa, ma quando il marito tornò dalla fugace apparizione da bersagliere sul fronte guerra la ripudiò, preferendole Rachele, la vecchia e accomodante fiamma. Ida però è una donna tenace, affronta Benito, lo affronta anche in presenza di Rachele. Il Duce le spedisce lettere cercando di blandirla, assicurando che terrà fede ai suoi impegni di padre. In effetti alla donna viene riconosciuto un sussidio in quanto moglie di un reduce di guerra. Però poi lui diventa quel che diventa e questa moglie, o comunque questa madre di un suo figlio, diventa una presenza ingombrante, anche in considerazione del messaggio politico del fascismo, tutto famiglia e patria. Lei è del resto insistente, non accetta di essere dimenticata, fa presente che per lui ha dovuto abbandonare la sua carriera, tornandosene mestamente in Trentino. Nel 1926, viene arrestata e reclusa nell’istituto psichiatrico di Pergine. Riesce a fuggire, viene riacciuffata e portata al manicomio di San Clemente, a Venezia. Dalla cella maleodorante dove viene buttata scriverà lettere disperate e appassionate, ma che da quelle mura non usciranno mai. Testimonianze, comunque, di una persona lucida, intelligente, capacissima di usare le parole in maniera appropriata. Non erano, quelle, le parole della pazza per cui volevano farla passare i medici che firmarono la sua condanna. Di quelle lettere resta traccia, così come resterà traccia di quelle che Benito le spediva, cercando di tergiversare per liberarsi di quella grana.
Resta tuttavia un donnaiolo impenitente, il dittatore. Mentre falcia grano a petto nudo e s’ingegna per fondare l’Impero intreccia una relazione con la scrittrice Margherita Sarfatti, quindi vira la sua prua (non voglio essere volgare) verso Claretta Petacci. Ida gli scriverà fino all’ultimo anno, prima di morire per emorragia cerebrale nel 1937. Una morte sospetta, forse provocata dalle percosse subite in cella.
Albino Benito fa la stessa fine cinque anni dopo nel manicomio di Limbiate, non appena rientrato dal fronte. Nella tomba gli cambieranno anche il cognome, perché non risulti alcuna traccia del suo passato. Se cercate tracce di questa storia online, oltre a tanto materiale ben documentato, trovate anche i patetici tentativi della stampa neofascista di attribuire ad una donna sola, rinchiusa in un manicomio, il ruolo di stalker dell’uomo che per un ventennio fu l’incontrastato padrone d’Italia, fino a condurla alla rovina. Se penso che di Benito Mussolini una certa destra odierna fa il sacro riferimento dei valori della famiglia tradizionale, a me quella destra viene voglia di mandarla pesantemente a cagare. Buona Liberazione a tutti!
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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