A distanza di poco più di un anno dall’uscita del mio libro sul problema storiografico sardo (La Mano destra della Storia, Carlo Delfino Editore), diversi autorevoli studiosi hanno richiamato l’attenzione sull’annosa questione dell’identificazione tra i Sardi di epoca nuragica e gli Shardana. La questione degli Shardana risulta, a mio parere, centrale nella discussione mai affrontata dalla cultura “ufficiale” sul problema storiografico sardo. La sensazione infatti è di trovarsi di fronte ad una considerazione del caso che ha toni che paiono pregiudiziali e scettici, una sorta di baluardo più ideologico che scientifico che promana specialmente dagli uffici periferici dello Stato. Ma in definitiva, ampliando la verifica dello stato degli studi anche fuori dall’isola, questa resistenza ideologica pare limitata proprio a quegli ambiti dove più forte si è fatto sentire il condizionamento storiografico. Si discute molto in questi giorni perché una nota trasmissione televisiva di divulgazione storica ha riportato le dichiarazioni del rettore dell’Università di Qena, Abbas Mansour, che considera l’assimilazione degli Shardana con gli antichi nuragici.
Ma questa dichiarazione fa seguito ad altre dichiarazioni, si ricorderà quella prestigiosa del direttore del Museo Egizio di Torino Christian Greco, ed altri studi e ricerche che ormai hanno “sdoganato” a livello accademico italiano e internazionale il tabù dell’identificazione tra i Sardi nuragici e gli Shardana. Sono convinto pertanto che la discussione sulla questione scientifica, se non vi fosse stato appunto il peso del problema storiografico, avrebbe preso ben altra piega nel corso del tempo. Quando scrissi il libro citato era appena uscito il corposo volume di Ugas sugli Shardana, e già si incominciava a intravedere come la questione incominciava ad uscire fuori dalle secche dello scientismo:
“Questo fenomeno, ovvero la capacità dell’egemonia culturale di creare, anche a livello scientifico ed accademico, un clima extrascientifico, di marginalizzazione, di fronte ad un tema di estremo interesse storico, è sintomatico della potenza dei paradigmi correnti e dell’egemonia culturale che quei paradigmi utilizza come strumenti. Infatti, è davvero notevole, di fronte a questa potenza schiacciante, verificare come, in realtà, fuori da quei paradigmi culturali, la scienza ha sempre considerato con molta serietà l’ipotesi dei nuragici shardana, addirittura, se vogliamo, con una mole di pareri e di studi forse persino più autorevoli del paradigma corrente. Ciò pone interrogativi sull’ipotetica distinzione che si potrebbe fare tra esiti scientifici e stereotipi culturali che non sempre discendono da quella scienza e che poi, con un procedimento inverso, rientrano a condizionare la scienza stessa. Esistono studi sugli Shardana, infatti, che sostengono questa teoria, opera di alcuni dei più autorevoli nomi della storia dell’archeologia. Si scopre, così, che molti maestri dell’archeologia, dal Taramelli al Pallottino allo stesso Lilliu, hanno sempre considerato con molta serietà l’ipotesi degli shardana provenienti dalla Sardegna. Lilliu osservò prudentemente che l’ipotesi dei nuragici Shardana “se non è da accogliere acriticamente non si può nemmeno scartare del tutto aprioristicamente” (La civiltà nuragica, pag. 113, nel 1982). Lilliu, inizialmente scettico, finirà col tempo per l’esserlo sempre di meno. (…)
Della questione se n’era occupato persino, nel 1930, nel suo celeberrimo “The bronze age”, Vere Gordon Childe, il grande archeologo australiano, (…) dichiarando che, senza ombra di dubbio, Shardana e Nuragici erano la stessa cosa (…). Ma per venire in tempi più recenti, l’archeologo dell’Università di Cagliari Giovanni Ugas ha dedicato una vita accademica a studiare nei dettagli la questione, arrivando alla conclusione che gli shardana non possono che essere gli antichi nuragici, spiegando, in diverse occasioni pubbliche e interviste, con dovizia di particolari, le motivazioni dell’identificazione tra shardana e nuragici. Infine è uscito il ponderoso volume Shardana e Sardegna, I popoli del mare, gli alleati del Nordafrica e la fine dei grandi Regni (XV – XII secolo a.C.), compendio di oltre trent’anni di studi sull’argomento, un migliaio di pagine colme di dati e annotazioni, in cui l’autore mostra in un unico apparato documentale e storiografico le prove dell’identificazione degli Shardana con i Sardi dell’epoca nuragica, grazie, tra le altre cose, all’incrocio di varie fonti scritte dell’antichità, localizzandoli in ambito tirrenico, in quanto provenienti dalle Isole del Grande Verde. E’ forse lo studio più esaustivo sulla questione. Prima di Ugas valenti studiosi di caratura internazionale avevano proposto l’analogia tra i sardi nuragici e gli “shardana”, come Emanuel de Rougé, Francois Chabas, Michel Gras, Moshè Dothan, Adam Zertal, Vassos Karagheorgìs, Robert Drews e Renato Peroni, citati dallo stesso Ugas che lamenta, peraltro, (in un articolo nell’Unione Sarda del 25 agosto del 2017) l’elusione del tema da parte degli studiosi a partire dagli anni ’70. “Nei miei primi studi archeologici, sino agli anni ’70”, esordisce Ugas nel suo libro, “ (…) il tema dei Popoli del Mare era sostanzialmente eluso dagli archeologici pre-protostorici sardi del dopoguerra”. Secondo Ugas, infatti, “la civiltà nuragica non appariva abbastanza matura per poter essere avvicinata senza perplessità alle vicende degli Shardana”. In pratica, Ugas ammette che la concezione che si aveva, in Sardegna, della civiltà nuragica, (aggiungo in rapporto alla storiografia nazionale), a parte qualche “fuggevole accenno del mio maestro Giovanni Lilliu”, l’unico che per autorevolezza poteva permettersi di insinuare almeno il dubbio, era quella che abbiamo visto: civiltà barbara d’altopiano, chiusa nei suo recessi deterministici, storici, antropologici e geografici. Non si poteva parlare, perciò, di affinità tra i nuragici e gli Shardana. La ricerca scientifica, pertanto, si piegava alle acquisizioni che, in realtà, erano stereotipi culturali. Questo fenomeno riguardava, tuttavia, più gli archeologi che operavano in Sardegna che la comunità internazionale degli studiosi, che analizzavano la questione Shardana senza condizionamenti. Questo, ovviamente, non deve sorprendere. Insomma, una sorta di tabù, di diktat, di cui si cerca di comprendere, in questo lavoro, in che misura ancora resiste.” (La Mano destra della Storia, pag. 179 e ss)
Oggi a maggior ragione si può sostenere che queste ed altre resistenze nei confronti di una maggiore apertura della storia sarda sembra che siano state interiorizzate negli ambiti storiografici ufficiali locali e, a cascata, da una parte del mondo della cultura che ha fatto propria quella costante opera di deviazione dalla questione storica a quella sociologica e antropologica.
“L’argomento, di fondamentale interesse per gli studi sardi e del Mediterraneo antico, in Italia e in Sardegna, finisce, così, per essere confinato nell’antropologia e nella sociologia. Gli Shardana non sarebbero altro che un’invenzione letteraria e pseudoscientifica utile per alimentare una identità mitologica ed artefatta, con l’ironia dovuta all’invasione del termine “Shardana” nei vari contesti della quotidianità. L’ipotesi plausibile subisce, perciò, un processo di marginalizzazione automatica. L’etichetta di pseudoscienza, applicata sugli Shardana, diventa proverbiale, nel dibattito sull’identità e sulla storiografia, della mitopoiesi e della superficialità degli studiosi indipendenti. Il merito del fenomeno storico subisce uno scarto automatico verso il proverbio, confinato subitaneamente fuori dalla scienza. L’assimilazione dei nuragici con gli shardana viene tacciata, sul nascere, di fantasia popolare o di deriva identitaria. Negli atti dei convegni di antropologia culturale sull’identità, o nelle critiche che la storiografia, specie archeologica, riversa sulla concorrenza degli intrusi, gli Shardana sono il tema esemplare, affatto ontologico, neppure analizzato nel merito, neppure considerato nella sostanza, ma solo nella forma, nel presunto effetto sociologico, nella sua mitodinamica popolare.”. (La Mano destra della Storia, pag. 178).
Questa deformazione che dalla discussione del dato archeologico e storico tracima nella sociologia e nella critica all’identità, spesso e volentieri coinvolge proprio quegli archeologi assertori del dogma “a ciascuno il suo orticello”, e che poi finiscono sistematicamente per andare fuori tema e fuori dal proprio ambito di studi. Ma a parte queste umane contraddizioni, resta da comprendere come sia possibile che un problema storiografico nato fuori dalla Sardegna, causato dalle dinamiche di nazionalizzazione culturale e dagli squilibri economici tra regioni geografiche con le conseguenti propagande egemoniche, (questioni che tratto ampiamente nello studio citato e qui accenno) finiscano per incancrenirsi proprio nella località che è stata pesantemente danneggiata da questa sorta di discriminazione storiografica. Si tratta peraltro di un danno che anche volendo solo considerarlo nella sua concretezza, si pensi agli afflussi turistici, è enorme. Il problema degli Shardana è dunque emblematico di quella cappa culturale egemonica di natura politica, relativa ai processi di nazionalizzazione culturale del paese, ed economica, relativa ai condizionamenti storiografici prodotti dagli squilibri di forza economica tra il centro e la periferia, che perdura tuttora e che sembra trovare le ultime resistenze proprio nell’isola. Come sia possibile, insomma, questa forma di autolesionismo che porta proprio gli ambiti della storiografia ufficiale nazionale in Sardegna ad accanirsi in un modo degno davvero di una migliore causa, contro tutto quello che è una visione più aperta della storia antica dell’isola. Il problema è certamente complesso e per comprendere queste dinamiche che sono tipiche e analizzate in molti studi post coloniali sono risalito fino alle opere di antropologi come Placido Cherchi, con il suo concetto di “vergogna di sé”, e Michelangelo Pira. Si potrebbe pensare che una volta abbattua la barriera resistenziale il paradigma finisca per radicarsi ancora più forte e con maggiore realismo. Ulf Hannerz scrisse a questo proposito che “coloro che hanno un orientamento più deciso verso i centri sia globali che nazionali sono anche quelli che ottengono più potere e più prestigio; e, in generale, anche maggiori risorse materiali”. Insomma, il problema storiografico della Sardegna assume i contorni di un caso di scuola. Un clamoroso caso di oscurantismo, riduzionismo e in alcuni casi di negazionismo della storia.
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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