Oggi è il 25 aprile e non è cambiato molto da quel 25 aprile di 70 anni fa.
Oggi come allora, la democrazia è un bene fragile e delicato, voluto e coltivato da poche persone.
I partigiani sono stati una piccolissima minoranza: ricordiamocelo.
Oltretutto perché a fare il partigiano si moriva pure facilmente: “Secondo le stime diffuse dal Corpo volontari della libertà nel 1972 il numero di partigiani ai primi di marzo del 1945 aveva raggiunto la consistenza di circa 80.000 combattenti; nelle settimane successive, mentre su tutti i fronti europei erano in corso le grandi offensive finali degli Alleati e l’Armata Rossa marciava su Berlino, si assistette ad un grande aumento di questi effettivi dovuto anche all’afflusso di elementi entusiasti ma in pratica non combattenti od entrati nel movimento anche per motivi opportunistici. […] Il numero di partigiani effettivi alla fine della guerra è tuttavia oggetto di dibattito. Una stima governativa del 1947 quantifica in 223.639 il numero di combattenti e in 122.518 il numero di individui accreditati come patrioti per la loro collaborazione alla lotta partigiana. Il dato è tuttavia da considerare come approssimativo rispetto alla consistenza reale del fenomeno.” (http://it.wikipedia.org/wiki/Resistenza_italiana)
Ecco perché le ragioni della Resistenza vanno ancora spiegate alla maggioranza, quella costituita dagli opportunisti e dagli indifferenti: http://espresso.repubblica.it/visioni/cultura/2015/04/23/news/resistenza-quando-la-violenza-e-necessaria-1.209371?ref=HEF_RULLO
Oggi è il 25 aprile 2005 e rispetto a due anni fa non è cambiato quasi niente.
Allora ripropongo un articolo del 2003, in cui mi domando cosa voglia dire questo giorno per i sardi e mi associo alla proposta di Mario Mossa.
Mentre i progressisti italiani si chiedono cosa ci sia da festeggiare il 25 aprile del 2013 (Cosa c’è da festeggiare ), i progressisti sardi è bene che si chiedano cosa vuol dire essere progressisti, oggi, in Sardegna.
Io una risposta a questa domanda ce l’ho: “È progressista chi vuole riformare la Sardegna e, soprattutto, i Sardi”.
È chiaro che per riformare la nostra terra bisogna darsi una classe dirigente adeguata al compito.
Questa classe dirigente oggi non ce l’abbiamo: La Sardegna ha una classe dirigente e politica all’altezza della crisi che sta vivendo? di Salvatore Cubeddu
I motivi di questa mancanza li ho indicati molte volte: da generazioni, le classi dirigenti sarde sono selezionate in base alla loro capacità di non essere sarde.
La scuola italiana in Sardegna seleziona da sempre gli studenti in base alla conoscenza della lingua e della cultura italiane, non in base alla conoscenza e comprensione della realtà della Sardegna. Per un’analisi storica di come questo processo di selezione/degenerazione delle classi dirigenti sarde ha avuto luogo, rimando a “La rivolta dell’oggetto”, di Mialinu Pira, e al mio Le identità linguistiche dei sardi.
Riassumendo in poche parole: il bisogno di progresso della Sardegna è sempre stato interpretato come bisogno di desardizzare le sue classi dirigenti.
Questo processo e stato praticamente completato intorno agli anni ’70 del secolo scorso, quando i genitori sardi sono passati in massa all’uso dell’italiano (prorcheddinu) con i propri figli.
Il razzismo italiano–che aveva assunto forme virulente negli anni del “banditismo”–è stato interiorizzato–grazie alla scuola e alla televisione–dai Sardi e così nell’isola si è passati dal colonialismo all’autocolonialismo culturale.
Una grande responsabilità in questa devastante operazione di “eviramento culturale” dei Sardi l’ha avuta il PCI, un partito fradicio di nazionalismo italiano, contrabbandato per internazionalismo.
Ma tutta la classe intellettuale sarda ha inevitabilmente “cospirato” a costruire il mito della Sardegna immobile nel tempo e incapace di progresso, se non rinunciando alla sua cultura.
Fra tutti, infatti, ha primeggiato, nella creazione del mito, il democristiano Giovanni Lilliu, con la sua fiaba della “costante resistenziale”, nella quale incredibilemente continuano a identificarsi molti Sardi.
Era inevitabile: tutti gli intellettuali sardi erano stati formati nella scuola e nell’università italiane, istituzioni grondanti di fascismo culturale, presentato poi nella sua variante soft: il risorgimentalismo.
Solo con il ’68 si vedrà la messa in discussione del colonialismo e della supremazia culturale occidentale, cosa che in Sardegna si è tradotta nella nascita del movimento “Su populu sardu”.
Ma il ’68 in Italia e nelle sue colonie non ha portato a una riforma profonda dello stato e della sua cultura, ma all’inciucio del cosiddetto “compromesso storico”, che lo stesso Berlinguer avrebbe poi rinnegato, denunciando l’appropriazione delle istituzioni da parte dei partiti, compreso il suo.
L’autocolonizzazione dei Sardi è continuata, malgrado la nascita di un movimento per la limba assolutamente minoritario, e malgrado il riconoscimento del sardo come lingua minoritaria, praticamente imposto dall’Europa.
Oggi il sardo è praticamente scomparso dalla vita sociale dei Sardi.
Risultato: il record della dispersione scolastica e quello–strettamente collegato–della disoccupazione giovanile.
In questi dati c’è tutto il fallimento della colonizzazione culturale della Sardegna.
Né poteva andare diversamente: provate a spostare il problema della necessità di andare avanti, di adeguarsi ai tempi, dal collettivo all’individuale.
Proporreste a un disoccupato sardo di frequentare un corso di dizione e di imbiondirsi i capelli per avere più probabilità di trovare un lavoro?
Proporreste a un bambino sardo di oggi di rinunciare al suo italiano di Sardegna e di mettersi, da un giorno all’altro, a parlare l’inglese improbabile che ha imparato a scuola?
Questo è quello che le classi dirigenti sarde hanno sempre fatto, soprattutto con se stesse.
La Sardegna è governata–a tutti i livelli–da ex-bambini traumatizzati, negati, violentati culturalmente.
Questa gente non si è “evoluta” a partire dall’accettazione di sé stessi, ma dalla sua negazione.
Il disastro socio-economico della Sardegna viene da lì, dalla vergogna di una classe dirigente di prendere atto di quello che si è e da lì partire verso il futuro.
Una classe dirigente che da sempre fugge dalla realtà della Sardegna.
I Sardi sono incapaci di amarsi, altro che le fantasticherie romantiche degli indipendentisti all’amatriciana, delle loro bandiere “autentiche”, le loro celebrazioni di battaglie perdute e il loro identificarsi nel feudalesimo medievale, in cui una ristretta minoranza comandava un popolo costituito per la maggior parte da tzeracos.
I Sardi sono incapaci di amarsi, perché immaginano il “progresso” come un processo che necessariamente li porta lontano da sé stessi.
Per troppo tempo i “progressisti” hanno salutato l’alienazione come, appunto, “progresso”.
Progresso significa partire dal punto A per arrivare al punto B.
Per arrivare a B, bisogna sapere dove è A.
Devi sapere quello che sei, se vuoi diventare qualcosa di meglio.
La scelta è quindi tra un divenire un Sardo migliore o rimanere–perché oggi questa è la situazione–un sardignolo, un’italiano di serie B.
Cari progressisti sardignoli, la vostra italianità è inventata, immaginaria, come la lingua che parlate.
E la scuola lo sa bene e vi scrocoriga!
Ah, pardon!
Non scrocoriga voi, sardignoli privilegiati, ma i più deboli.
Quel 36% di giovani Sardi che non sa leggere un testo semplice in italiano.
Ma a voi, progressisti fighetti, di loro non importa niente.
I “progressisti” sardi non rappresentano quelli che dovrebbero rappresentare: i sardi pù sardi e, quindi, socialmente più deboli: vedetevi i dati sui risultati scolastici dei sardononi nella ricerca sociolinguistica coordinata da Anna Oppo.
Progressismo vuol dire scegliere per le cose buone che costituiscono la nostra identità e accettare, ma lasciandocele dietro come passato, le cose meno buone.
Progressismo vuol dire prendere atto della nostra condizione (neo)coloniale per avviarci verso l’indipendenza culturale e, quindi, col tempo, economica.
La questione dell’indipendenza statuale è sempre sta un dettaglio secondario: vedi la Catalogna.
I Sardi devono imparare ad amarsi.
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