Nella giornata dell’Olocausto, la giornata che ci serve per non ripetere gli errori e gli orrori del passato, due notizie hanno attirato la mia attenzione. Due notizie che sono collegate tra di loro. La prima. Ormai è ufficiale che americani e sauditi abbiano armato, addestrato e finanziato i ribelli fondamentalisti in Siria per rovesciare il governo. L’ufficialità oggi ha un nome e cognome: operazione Timber Sycamore. Lo stesso tipo di operazione, spiegano gli osservatori, è stata fatta in Afghanistan quando furono finanziati e appoggiati i talebani, poi, com’è noto, sfuggiti di mano. Semplificando, si può tranquillamente dire che l’Occidente finanzia lo stesso terrorismo che dice di combattere. L’effetto secondario di queste operazioni sono le masse di disperati che da quei paesi prendono il mare, in fuga da quelle sporche guerre. Gli stati canaglia: Iraq, Libia, Siria, Iran. Quelli che, al netto delle loro problematiche interne, non certamente peggiori degli stati arabi nostri alleati ed anzi, che si possono definire più laici e avanzati, piano piano li stanno distruggendo, ad uno ad uno. L’ultimo che resta è l’Iran, paese di cui si parla in questi giorni per la visita del suo premier in Italia, sottoposto a dure critiche per lo stato dei diritti umani. L’Iran è uno stato sciita, quindi canaglia, perché non fa gli accordi petroliferi con l’Occidente. Già negli anni ’50 Mossadeq nazionalizzò la compagnia petrolifera inglese, un peccato mortale che ancora l’Iran sta pagando sullo scenario internazionale. Naturalmente Mossadeq fu rovesciato da una congiura internazionale e condannato all’esilio. Al suo posto tornò lo Scia di Persia, grande amico dell’Occidente, cacciato via, con la rivoluzione del ’79, a suon di corno, perché affamava il popolo. Poi dice che hanno accolto a braccia aperte l’Ayatollah. E ti credo. Con la fame chiunque ti sembra un salvatore. Quindi l’Iran è tornato ad essere uno stato canaglia. Solo che viene un po’ male distruggere un grande stato come l’Iran, popoloso, con una economia tutto sommato solida, una grande cultura e anche piuttosto armato. Forse è meglio scendere a patti. Ma nel frattempo americani, inglesi e francesi continuano imperterriti ad armare le mani dei cosiddetti ribelli, tutto fuorché giovani patrioti intenti a lottare per i diritti civili nei loro paesi, più mercenari al soldo di qualche califfo che fa affari con l’Occidente. La seconda notizia è che la Danimarca ha approvato una norma che farà discutere e ha già visto le proteste degli organismi internazionali come l’Onu. Infatti i richiedenti asilo verranno privati dei loro averi a titolo di risarcimento. A quanto pare la Svizzera sta approntando una legge simile. E’ curioso rilevare come questi due paesi siano in testa alle statistiche, elaborate con metodi sempre di tipo economico e quantitativo, per la qualità della vita più alta o addirittura più felici. Come se ci fosse un misuratore statistico della felicità, come se essa te la potesse misurare un parametro quantitativo. Infatti, io non entro neppure nel merito delle scelte politiche. Vorrei solo aprire una parentisi su cosa intendiamo noi Occidentali per “felicità”. Secondo me abbiamo perso la bussola. Perché tutto si può dire, ma un paese che approva una legge del genere non si può definire felice. La felicità è un altra cosa, mi dispiace. La felicità ti porta ad avere un’altra apertura, un altro rapporto con il mondo che ti circonda. Per troppo tempo ci siamo convinti che ammassare denaro e oggetti potesse essere la formula del quieto vivere e del benessere, ma in realtà non è così. Si dirà che la povertà porta all’infelicità. Ma neppure ciò è corretto. La povertà porta alla disperazione, che è ancora un’altra categoria di sentimento. Disperati sono i profughi che pur di salvarsi rischiano la vita nel mare aperto. Quelli sono disperati e neppure si possono definire infelici. Ma anche chi non ha più la compassione, chi non ha più gli strumenti per entrare in empatia con il prossimo, è un infelice, inaridito dall’egoismo e dal quotidiano, amputato della capacità umana più bella e profonda, quella di provare dei sentimenti, di qualunque natura essi siano. Gli antropologi forse si sono accorti di un errore perseguito per anni: quello di definire “complesse” le società tecnologiche, sviluppate economicamente, dotate di tecnologia, e “semplici” le società tradizionali, solidali, segmentarie, le stesse che un tempo venivano definite “primitive”. Ci si sta accorgendo, con la lentezza di studi viziati di etnocentrismo, che in realtà la rincorsa verso la modernità è un processo di semplificazione. Per far un esempio, le società cosiddette “primitive” utilizzano un apparato fonetico molto più complesso del nostro. Ma non è solo a livello di tradizioni, costumi, alimentazione che la nostra società tende alla uniformità e alla semplificazione. La cosa triste, davvero triste, che è la vera decadenza dell’Occidente, è la semplificazione dell’apparato sentimentale. Che si trasforma in grettezza, aridità morale, analfabetismo etico. Ecco perché le nostre statistiche non sono più in grado di rilevare il benessere vero e la felicità. Perché non si può rilevare un elemento astratto, interiore, che abbiamo perduto, che neppure sappiamo più che cosa è. Noi siamo solo in grado di rilevare lo spettro della felicità, il suo surrogato, la sua controfigura.
Foto Unicef
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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