I profeti hanno questo di buono: lasceranno comunque traccia delle loro parole e opere. Perché ciò che dicono e fanno non è mai banale. Essere profeti non è semplice. Anche perchè non è un mestiere. Son convinto, però, che profeti si nasce. Quell’attitudine indefinibile che si può anche chiamare carisma ma sono molte cose frullate insieme: autorevolezza e competenza. Fatevi un giro su youtube e cercate le immagini delle azioni di questo strano profeta del gol: Johan Cruijff da Amsterdam, nato il 25 aprile 1947 (se fosse italiano sarebbe profeta fin dalla nascita) e morto oggi, 24 marzo 2016, in un giorno grigio e silenzioso di una Barcellona che lo ha amato ed abbracciato per sempre. Provate a guardare come giocava a pallone (o, come direbbe Brera, al futboll) scoprirete subito che lui, la palla non la toccava. La sfiorava soltanto e le regalava una traiettoria che nessun portiere riusciva a decifrare. Non era velocissimo, nonostante facesse parte di quello squadrone bellissimo costruito sull’intuito e sulla corsa, che nel 1974 poteva vincere il mondiale e non vi riuscì. Quell’Olanda eternamente seconda, quelle camicie arancioni gonfie di delusioni per troppi mondiali perduti. Quell’Olanda e quel calcio totale che lui rappresentava, quel gioco infinito e bello da giocare ma che con gente come Cruijff è bello anche da vedere. Quei pallonetti di prima intenzione, quelle parabole indescrivibili, quei movimenti troppo veloci per gli avversari eppure lentissimi da osservare. Non era un attaccante puro però segnò 402 gol in 716 partite ufficiali. Non era un centrocampista o un difensore eppure te lo trovavi lì, in mezzo al campo o vicino alla sua area a respingere un pallone. Ha vinto tutto e non ha vinto nulla: un secondo posto con la sua Olanda nel 1974 ai mondiali, un terzo posto in Jugoslavia, nel 1978, agli europei. Come Nazionale non ha funzionato. In patria, si sa, i profeti hanno sempre avuto qualche problema. Il profeta era grande da solo: tre palloni d’oro, tre coppe dei campioni con l’Ajax. La finale con l’Inter del 1972 il giovane Oriali ancora se la ricorda. Lui, il profeta, segnò ben due gol. Oriali attese in silenzio e dopo dieci anni dimenticò quella maledetta finale vincendo un campionato del mondo, a dispetto di Cruijff ma quella è, chiaramente, un’altra storia. Poi, il passaggio al Barcellona. Arriva che la squadra è penultima in classifica. Quell’anno finirà con lo scudetto sul petto. Roba che a Barcellona non si vedeva da 14 anni. Poi l’allenamento, provare a profetizzare ciò che aveva divinamente regalato in campo. Con il suo Barcellona da allenatore vince quattro scudetti, una coppa del Re, una coppa delle coppe e la sua prima coppa dei campioni in finale con la Sampdoria di Gianluca Vialli e Roberto Mancini che possono vantarsi, loro si, di aver visto un profeta insegnare il gioco del pallone. Infine il buio. Problemi di salute. Ripetuti infarti e problemi di respirazione. Il buio che lo accompagna con una certa serenità. Combatteva con un tumore ai polmoni. La maledizione del cancro è che non ha una forma rotonda che si può stoppare e lanciare lontano. Non puoi neppure costruire i pallonetti con la gaiezza del suo giocare. Niente. Prima o poi i profeti salgono sul monte e non ritornano. Qui, sulla terra rimangono i gesti di uno che camminava con la poesia tra i piedi. Se non avete mai visto un filmato di Johan Cruijff siete ancora in tempo. Guardate la sospensione dell’attimo e capirete perché era davvero un profeta. E perchè i profeti non muoiono mai.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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