Da anni non facevo una vendemmia. Da anni avevo voglia di fare un salto a trovare il mio amico Ugo. Ci conosciamo dai giorni in cui stava per nascere il mio primo figlio. Avevamo passato insieme il Capodanno e dopo 23 giorni mio figlio era nato. Lo stesso giorno del compleanno di Ugo. Eravamo a Cagliari e io ricordo quelle settimane di attesa come uno dei momenti più belli della mia vita. In quei giorni, e poi due anni dopo, quando nasceva mia figlia, ho girato Cagliari a piedi in lungo e in largo, soprattutto Castello e Marina, e l’antichissima via san Lucifero fino a San Saturno e alle pendici di Bonaria. E ho deciso che se mai il Mediterraneo avesse bisogno di una capitale, avrei io una città da segnalare. Però vi raccontavo di Ugo, e di Nurallao. Ha una piccola azienda agricola e del bestiame. Produce vino biologico. Non sto a dirvi se sia buono e quanto, ci arrivate da soli. Comunque, erano anni che desideravo farmi una vendemmia. Così ad agosto l’ho chiamato e gli ho chiesto se potevo scendere a dargli una mano. Dopo tre settimane mi ha richiamato per dirmi: io sto iniziando, organizzati e scendi. E io sono sceso. Motoretta, traghetto, pullman, treno, treno (due volte treno, sapete com’è… Chilivani…). Fino a San Gavino. Poi macchina di Ugo, pranzetto veloce a Sanluri, parlando di quanto cazzo siano micidiali i cinesi, che riescono a muoversi e a creare in mezzo al nulla attività brulicanti di merci e persone. Come primo abbiamo scelto un riso alla cinese (il ristorante era italianissimo, anzi sardissimo) e per secondo calamari freschi all’orientale. E poi siamo partiti verso il levante, dove c’è Nurallao (che è a est di Sanluri). Nurallao è Sarcidano con furore, ma appoggiata sulle sue colline si gode ogni santo tramonto sulla Giara di Gesturi (che poi è anche di Tuili e Genoni, ma se dico Gesturi capiscono tutti). A sud la preme la Trexenta, e se non ci fosse stato Ugo ad avvisarmi dei confini che stavamo attraversando per raggiungere Dolianova, -dove ho visto cose che voi umani- non mi sarei accorto di nulla se non dei nuraghi bianchi e puliti di quella zona, e dei pennacchi di fumo di stoppie che dalla dorsale che collega Isili con la Marmilla, fanno mostra di sé profumando di carbonio, più in basso, il Campidano. A Dolianova ci siamo andati per lavoro (il suo). Nella cantina del mio amico intanto iniziava a bollire la spremitura soffice del Sangiovese vendemmiato anche da me, la mattina dopo il mio arrivo. La vigna è un mondo che sta in piedi da solo. E fa meraviglia che sia così, perché è una delle colture più delicate e fragili. Solo degli ubriaconi come i Mediterranei potevano insistere a coltivare una pianta che ogni tanto tira fuori un problema epocale e minaccia l’estinzione. Solo dei bevitori rituali di vino potevano incaponirsi così tanto da, non solo salvare, ma elevare a livelli di perfezione una produzione agricola apparentemente non vitale ma in realtà indispensabile (non è mica grano, non è mica frutta, eppure a una festa può mancare sia la pasta che la frutta, ma il vino no.) Comunque, Nurallao. Mentre fuori da quella visuale, settanta chilometri più a sud e a ovest, e più lontano anche a nord e a est, il mare continua in questi giorni a farci sentire l’estate che non muore, a Nurallao, osservando l’aurora, ti cachi dal fresco. Non dal freddo perché il freddo è altra cosa, ma c’è un fresco che se fossi andato alle sei e mezzo in vigna, come ho fatto, a maniche corte come un qualsiasi marinaio in erba, mi sarei cacato dal fresco. Alle nove la vendemmia era a buon punto. Si era deciso di tagliare il Sangiovese ma non ancora il Bovale sardo (che qui si chiama Muristellu) il Barbera e il Cannonau. Nei giorni prima erano stati vendemmiati il Moscato, la Malvasia, il Nasco (il Nasco di Ugo fa ricrescere i capelli e con gli scarti si fa il viagra) e il Sirah. Già, Sirah, giusto per dire che siamo molto più arabi che tedeschi; ma andiamo avanti. È stato divertente curiosare tra botti, tini, minisilos (minisili?). Ancora più divertente è stato godermi lo sballo dei tempi sfasati, rispetto ai miei. Sfasati nel senso che ero in ferie, che ero in campagna e che a Nurallao (ma non solo lì) la lentezza non è un’opinione. Non essendo sempre utile, ogni tanto ho vagato tra filari già vendemmiati alla ricerca di grappoli scampati alle forbici. Il moscato oublièe è una delle cose più dolci al palato e appiccicose alle mani, che possano capitare ad un essere umano. Ogni tanto, in quel vagare, partiva un effetto speciale che neanche il campionatore di suoni dei Dire Straits, quando alcune centinaia di pecore comparivano lente e inesorabili per travasarsi da una tanca all’altra. Già gli uomini sono lenti, qui. Le pecore sono Zen. Fluiscono in una musica di cristallo come una chiazza di schiuma in transito sull’erba. Sono bellissime, o forse ero solo accecato d’amore per loro. La Sardegna, per tre giorni, mi ha teso degli agguati micidiali. Ha aspettato che cambiassi angolazione, che mollassi per un attimo il mio punto di osservazione, la mia isola, e la guardassi da un’altra prospettiva, per sbattermi in faccia una serie di questioni che il mio quotidiano mi fa considerare con sufficienza. E mi è venuto il sospetto che noi sardi siamo un po’ stronzi. Si parla tanto di colonizzazione, di invasione, di identità calpestata, di sfruttamento. Credo sia tutto vero. Però. Pensando a come è stato difficile opporsi, ad esempio, alla sparizione o al diradarsi del Sardo parlato a vantaggio dell’italiano, mi sono dovuto chiedere: che voglia ha un orunese di farsi capire da un nurallaese o da un morese? E a proposito dell’Identità sarda, che interesse profondo ha un Gallurese a sentirsi vittima degli stessi problemi di un sulcitano? Chi glielo fa fare ad un maddalenino, di sobbarcarsi le preoccupazioni di un ogliastrino per le esercitazioni nei poligoni? Ecco, lo stato italiano continua a combinarcene di tutti i colori, ma noi sardi siamo spesso i suoi migliori alleati. “A casa parlavamo il sardo”. Non dice “il campidanese”, Ugo. Dice “parlavamo il sardo”. E ancora: “da fuori ci hanno fatto le peggiori malefatte, e la storia continua anche oggi. Ma ora, noi, abbiamo voglia di un qualche riscatto?” Aggiungo io: abbiamo una visione abbastanza condivisa da poter diventare trainante? Se anche è vero che siamo diventati pocos locos eccetera eccetera, per colpe altrui: ma ora? L’episodio del toscano che si era perso nei boschi, gli stessi boschi che era venuto in Sardegna per tagliare e ridurre in carbone, la dice lunga. Me l’ha raccontato Ugo a tavola, l’ultima sera. Quel pastore nurallaese aveva trovato quello sprovveduto di un carbonaio toscano, che vagava da ore senza riferimenti. Alla richiesta di dargli un’indicazione, richiesta formulata in toscano, il pastore aveva cercato di esprimersi come meglio poteva, fuori dal suo sardo. Gli strafalcioni detti in questo tentativo di apertura al mondo, di accoglienza di una persona e della sua incerta lingua (apertura che da parte del toscano non c’era stata e forse non ci poteva e voleva essere) furono fonte di barzellette che durano ancora oggi. Barzellette volte a dipingere come ignoranza, quel naturale inciampare di chi si avventura fuori dal suo mondo. Questa si che è un’operazione di regime, l’occultamento di una verità che sarebbe palese. Capito? Il toscano si era perso e non capiva un acca di sardo, e la parte dell’ignorante, nelle barzellette dei sardi stessi, è toccata al pastore. Basta sostituire alla Sardegna un’altra zona d’Europa, appena fuori confine come la Slovenia la Carinzia, la Savoia, e immaginare un milanese che si perda e chieda, a un montanaro, indicazioni nella sua lingua, (sua del milanese). Oggetto della coglionella sarebbe il milanese che si è perso, ne sono sicuro. Perché la verità è che quel pastore non era tenuto, lui personalmente, a conoscere l’italiano, visto che la sua lingua era un’altra. Era un’altra, e questo è un fatto storico. Il toscano avrebbe dovuto conoscere il nurallaese (il sardo), o almeno capirlo. Ugo ha ragione, caz. Ci siamo salutati chiacchierando così, e poi a dormire, che per essere a San Gavino alle sette tocca partire presto. Il viaggio in treno fino a Olbia è stato il solito spettacolo. Ogni tanto la Sardegna si lascia riscoprire. Lei è là, o qua. Si lascia osservare in quelle sue forme così strane nel loro sembrare normali. Non esistono montagne così antiche e così lisce da sembrare a chi le guardi da lontano, colline. Non esistono fuori di qui per migliaia di chilometri, intendo. Qui invece ci sono. E ci dicono che la Sardegna ha da sempre una pazienza infinita, ma che anche lei si consuma. Forse siamo in tempo per rallentare questo modo paziente di sparire dal mondo. Per riprendere a navigare a testa alta nel Mediterraneo che intorno ci aspetta. Come ci ricorda Roberto Bolognesi, siamo al centro tra Marsiglia, Barcellona, Tunisi, Palermo, Roma, Genova. Si dice che una delle prime cosa fatte dai romani, dopo la conquista, fu quella di bruciarci le navi. Voglio verificare se è storia o leggenda. In ogni caso, ecco, qui abbiamo qualcosa che può farci luce su una storia diversa. Altro che in Sardegna non c’è il mare: la Sardegna è il cuore di un mare. Il mare più cruciale che la storia antica dell’umanità abbia mai conosciuto. Un cuore pulsante dal battito lento, come quello dei grandi campioni. Abbiamo ancora le forze per metterci in piedi, guardarci intorno con un po’ di speranza e tornare al centro della nostra storia. Se solo volessimo. Se lo vorremo.
Nacqui dopopranzo, un martedì. Dovevo chiamarmi Sonia (non c’erano ecografi) o Mirko. Mi chiamo Luca. Dubito che, fossi femmina, mi chiamerei Sonia. A otto anni è successo qualcosa. Quando racconto dico sempre: “quando avevo otto anni”, come se prima fossi in letargo. Sono cresciuto in riva a mare, campagna e zona urbana. Sono un rivista. Ho studiato un po’ Filosofia, un po’ Paesaggio, un po’ Nuvole. Ho letto qualche libro, scritto e fatto qualche cazzata. Ora sto su Sardegnablogger. Appunto.
Renatino e i misteri di Roma (di Giampaolo Cassitta)
Cara Cora (di Francesco Giorgioni)
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Vincerà Mengoni. Però… (di Giampaolo Cassitta)
Ero Giorgia, e ricanto. (di Giampaolo Cassitta)
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