Io m’immagino il ghigno di Maurizio Belpietro, quando gli hanno chiesto di firmare il numero annuo necessario a salvare la vita de L’Unità. Non c’è bisogno di ricordare come L’Unità sia un giornale che incapsula storie e culture in irrimediabile contraddizione con quanto, invece, rappresentano i giornalisti alla Belpietro. Non è un giudizio di merito, non sto dicendo che Belpietro sia un pessimo giornalista e invece quelli che lavoravano a L’Unità tutti degli inarrivabili talenti. Dico che sono storie e percorsi inconciliabili. Il problema, ancora più serio, è che secondo me questa operazione è stata compiuta nella piena consapevolezza del polverone che avrebbe alzato, forse proprio perché apparisse come uno sberleffo, uno sfregio, uno scarabocchio con la bomboletta spray su un quadro pregiato. Dà molto l’idea dei tempi che viviamo. Non dite, comunque, che Gramsci si sta rivoltando nella tomba: altri, prima di me, hanno ricordato che Gramsci venne provvidenzialmente cremato.
E quindi Belpietro avrà riso tra sé e sé, pensando che stava per diventare il salvatore di un patrimonio di valori che ha sempre avversato, col suo modo di fare giornalismo e con le posizioni e gli editori che ha rappresentato. Posso anche pensare che Belpietro lo abbia fatto per vero spirito solidale, per un senso d’umanità che sembrerebbe stridere col suo profilo di giornalista. L’esperienza mi ha insegnato che i giornalisti, spesso, sono nel loro intimo quanto di più lontano si possa immaginare da quel che scrivono: li leggi per una vita, te li raffiguri in un certo modo e infine li conosci. Forse Belpietro lo ha fatto proprio per umanità. Ma secondo me ha riso parecchio.
Però i giornali non sono squadre di calcio. È molto probabile che il prossimo anno Antonio Conte alleni l’Inter. Antonio Conte, odiato juventino con una vita intera da atleta in maglia bianconera, rivelatosi allenatore di prima grandezza riportando al successo la Juventus ritornata dagli inferi della Serie B. La cosa non ci scandalizza, perché il calcio è un mondo dove tutto può essere messo in discussione e i ricchi ingaggi ricompongono vecchie rivalità solo in apparenza destinate all’eternità. Ma i giornali, lo ripeto, non sono squadre di calcio. Contengono idee, un certo orizzonte, un’ipotesi di mondo. Una testata non è solo un appellativo, è la garanzia di quegli orizzonti. Sotto la testata dell’Unità, in cima alla gerenza, non può esserci la firma di Belpietro, perché rappresenta l’opposto di quanto quel giornale ha voluto essere per un secolo. Sarebbe valso anche in senso opposto se, per dire, ci fosse toccato di vedere alla direzione de Il Secolo d’Italia quel fuoriclasse del giornalismo progressista che era, ahimè, Vittorio Zucconi. Ripropongo, a questo proposito, un vecchio post di Cosimo Filigheddu, riguardo ad una vicenda accaduta a Sassari: “A metà degli anni Novanta il professor Todini rilevò la testata della Voce Universitaria la cui proprietà era evidentemente decaduta, facendone un giornale di estrema destra. Scrissi sulla Nuova che, anche se non andava contro la legge, da parte di un professore si sarebbe auspicato più rispetto per un giornale come quello: aggiunsi che così come non si sfregia un’opera d’arte, nello stesso modo bisogna salvaguardare la storia di una testata. Per chiarire specificai che se un gruppo comunista avesse rilevato il Candido di Guareschi, la cosa mi avrebbe addolorato nello stesso modo. Manlio Brigaglia, solitamente avaro di complimenti, lodò sulla stessa Nuova il mio articolo”.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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