LAMPEDINNIRUSassari ha un’esperienza antica di pietre di storia buttate giù e da subito rimpiante con stucchevoli mea culpa. E in tutti i casi la procedura è la stessa: le si lascia in balia del tempo con le sue piogge che deteriorano i muri, gli incendi che levano i tetti ai muri ammalorati, il senso di rovina e di pericolo che a poco a poco se ne diffonde e infine arrivano i picconi, o in tempi moderni, la ruspa. Gli esempi più noti sono quelli della chiesa di Santa Caterina, metà Ottocento, e del Castello, una ventina di anni dopo. Ma ce n’è un fottio in tutti i tempi: dalla chiesetta di San Biagio poco fuori porta Sant’Antonio, alla villa Conti di viale Dante. Dietro queste vicende, spesse volte gli intenti speculativi, altre volte distorte visioni della “modernità” e comunque sempre una tartufesca rassegnazione al “degrado” per giustificare la demolizione e dopo, sempre, resta qualcosa di peggio rispetto a prima. Ora tocca alle Concerie Costa di Santa Maria, l’ultimo esempio e ricordo materiale di una Sassari che con il suo lavoro, la sua intelligenza e il suo reale senso della modernità aveva i numeri per divenire la più importante città sarda. Non lo so cosa ci sia di vero nell’ineluttabilità di questa demolizione delle concerie, so però che al giorno d’oggi, nel mondo, si tengono in piedi e si rendono persino visitabili rovine più rovinose di quelle. Ma non mi sembra che la città si sia indignata. Al grido di “lampedinniru” abbiamo impugnato il piccone che ciascuno di noi sassaresi conserva orgogliosamente nel suo armadio con altri scheletri.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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