Stabilito che una volta ritrovato vivo e sano non me ne può fottere di meno del livello di sorveglianza esercitato dai genitori di Nicola, mi interessa invece il fuoco di fila dei social. Dal quale emerge l’immagine di una società parentale perfetta. “Mai permetterei a mio figlio di due anni di uscire fuori dalla mia vista, che padre e madre sono quelli?”, grida la folla elettronica. E io sono tentato di inserirmi nei profili più arrabbiati con commenti tipo “Ma quando gli lasci il tuo cellulare in mano per cinque ore con una sequenza di cartoni su Youtube perché se ne stia zitto, non lo stai lasciando fuori dalla tua vista?”. E anche in maniera peggiore di quanto sarebbe un allontanamento concreto, perché così – con il telefonino o la tv nell’età prescolare, poi con il basket, il judo, l’inglese e la piscina che gli scandiscono la giornata – ti stai illudendo di tenerlo sotto controllo e invece lo stai allontanando più del crasto da te e dalla vita vera.Sono nato nel centro storico di Sassari e ci ho vissuto sino ai primi anni Sessanta. La nostra era una casa piuttosto piccola dove vivevamo in sei, anche se questo numero valeva soltanto il fine settimana e negli altri festivi, perché babbo nei giorni feriali stava in uno dei tanti paesi dove ha avuto la sua condotta e quando poteva non gli sembrava vero di correre a casa per stare con moglie e figli. Una casa piccola, lo spazio fisico lo cercavo fuori. A scuola ho cominciato ad andare da solo credo dal secondo giorno di prima elementare. In quanto a tornare, mi capitava di farlo accompagnato soltanto il sabato, appunto perché il venirmi a prendere era uno dei modi di babbo di festeggiare il suo rientro settimanale in famiglia. Quando non ero a casa, nessuno, salvo che fossi a scuola, sapeva di preciso dove fossi. Diventavo uno dei mille ragazzini che sciamavano nelle strette intorno a piazza del Comune, l’unica raccomandazione era di stare attento se sconfinavo al Corso “perché lì le macchine corrono”. E non crediate che il centro storico allora fosse un asilo infantile privo di malizie e di pericoli. Era molto più interclassista e quindi più sicuro e protettivo di oggi, è vero, e il figlio di un medico usciva di casa e faceva subito greffa con il figlio di un muratore che abitava a fianco. Nel mio gruppo c’erano due Antonio. Per distinguerli li chiamavamo “Antonio il Ricco” e “Antonio il Povero”. Antonio il Ricco era il figlio del ciabattino di via Canopolo, immaginate quanto era povero Antonio il Povero. Però, a parte questa socialità solidale di ragazzini moderatamente scapestrati tutti figli di gente perbene, era un quartiere più duro di adesso, che non senti altro che gente lamentarsi di drogati e roba così: ma pretendete di circolare in un quartiere popolare, che fa tanto chic per chi ci passa da estraneo, come se foste ai Parioli con la polizia nei gabbiotti antiproiettile a ogni angolo? In un quartiere popolare c’è di tutto, ed è bello proprio per questo. Allora la droga non c’era, ma vi assicuro che gli ubriaconi, cioè gli alcolisti a caccia disperata dei soldi per un bicchiere, non erano farina da fare ostie, però imparavi a vivere nelle stesse loro strade, vicino alle loro case, senza averne dei danni, e la lezione ti serviva per tutta la vita. Una volta, all’angolo tra via Pazzola e via Canopolo vidi due donne accapigliarsi, una infilò il pollice nella bocca dell’altra e le lacerò la guancia come avesse un rasoio. Ricordo come fosse ieri i vigili urbani del Comune che le separavano, la ferita su una lettiga portata a mano da due uomini, l’anziana maestra Asole che buttava secchiate d’acqua per ripulire la strada dal sangue che si disperdeva tra i ciottoli in tanti rivoli. E credete che mamma e babbo fossero degli incoscienti perché in quelle strade mi mandavano a giocarci senza baby-sitter? Loro erano sicuri che non mi sarebbe accaduto niente. Prima di tutto perché c’erano mille occhi che mi sorvegliavano da ogni finestra, da ogni portone, ogni passante era un controllore che vegliava sulla mia incolumità, ogni artigiano sulla soglia delle bottega, ogni donna alla porta e ogni negoziante erano in grado di gridarmi dietro: “Uccettì, fai lu brabu sinnò ciammu a mamma toia”, così come mamma esercitava lo stesso controllo sugli altri bambini che le passavano sotto gli occhi. E l’altro motivo per cui i mille bambini come me potevano circolare senza apparenti controlli è che il principale di questi controlli veniva da prima, da casa, dall’esempio, dalle parole affettuose e sagge, dall’amore che ti ammaestrava alla vita senza terrorizzarti ma facendoti capire di chi potevi fidarti e di chi no. Poi un incidente poteva sempre capitare, allora come adesso, ma nonostante i pettegoli ci fossero anche allora, pur senza i social, al centro storico di Sassari potevi stare certo che in quel caso non ricevevi condanne ma soltanto aiuto e conforto.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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