Quella lunghissima fila di camion militari in bianco e nero che, come una line sottile tra il prima e il dopo, ci ha trasportato verso l’ignoto. Quelle bare sole, glaciali, senza nessun parente e senza abbracci hanno raccontato il volto triste del trapasso. Mai come quel giorno la frase di De André l’ho sentita terribilmente mia: “Quando si muore si muore soli”. Quei camion militari hanno ci hanno come risvegliati da un torpore nel quale ci eravamo infilati senza capire, davvero, cosa fosse questa benedetta pandemia. Pareva una piccola costruzione, un’esagerazione, un limite alla nostra sfacciata libertà fatta di aperitivi, palestre, voli low cost, concerti, partite di calcio. Tutte cose dannatamente normali, tutte cose che avevamo sempre conosciuto, che facevano parte, da sempre, della nostra vita, del nostro modo di presentarci agli altri con le sfaccettature di sempre: diversità legati agli usi, alle consuetudini. E’ crollato tutto. Abbiamo visto un Papa abituato alle moltitudini calpestare, da solo, l’immenso sagrato di San Pietro. Nessuno ha accompagnato il Cristo nelle varie vie crucis di tutti i paesi cattolici del mondo. Ci siamo giocati la Pasqua, pasquetta, il 25 aprile e il primo maggio, anche la fiera del libro di Torino. E’ passata quasi in silenzio la festa della Repubblica come tutte le manifestazioni militari, sportive, musicali. Sembrava tutto passato anche se non sono brillati i fuochi d’artificio a ferragosto. Pareva avessimo scollinato. E invece. Abbiamo trascorso il Natale – il Natale, mannaggia – da soli, con un presepe senza calore; i nonni senza nipotini, le mamme e i papà ad abbracciare figli su Skype e quando ci siamo ritrovati abbiamo utilizzato modi goffi per salutarci: abbiamo imparato a darci il gomito, abbiamo unito le nostre mani mostrandole al nostro ospite; siamo rimasti lontani con la convinzione di essere sempre vicini e sono finiti gli aperitivi, i caffè, le pizze, la novena di natale, la fatidica ultima notte dell’anno con amici e parenti. E’ saltata la tombola e son rimasti i fagioli nei sacchi. Abbiamo osservato con riluttanza, con paura, con poca speranza l’anno che arrivava e abbiamo saltato il carnevale nonostante fossimo da un anno esperti in mascherine; abbiamo assistito a Sanremo, la più grande messa laica musicale, per la prima volta senza pubblico. Siamo arrivati ad oggi a ripensare all’anno trascorso molto pericolosamente e ad osservare, ancora quella fila di camion militare pieni di uomini e non semplicemente numeri. Questo siamo diventati: matematici possibilisti e speranzosi. Tutti a verificare se la curva dei morti diminuisce, se quella dei vaccini aumenta, se sarà possibile riprenderci la vita, quella di tutti i giorni, quella che non sopportavamo. Quel traffico intenso, quello stare appiccicati aspettando il gelato, quelle folle accaldate nelle spiagge della nostra isola, quel ballare vicini vicini, dove “il sudore si appiccica”; quel non sopportare dover aspettare ai caselli autostradali, ai botteghini di un cinema, alle entrate in curva sud. Tutto quello che mal sopportavamo oggi ci manca in maniera forte, esigiamo quasi stare in mezzo alla folla, toccarci, sentirci. Siamo quello non volevamo essere perché siamo animali capaci di vivere solo in branco. Quel branco che vorremmo distruggere, dal quale vorremmo rifuggire ed invece, dopo un anno, è quello che cerchiamo, immaginiamo, speriamo. Questo raccontano quei camion che continuano a scaricare sulla collina centinaia di morti ogni giorno. Ci raccontano che quando si muore si muore soli. Ci raccontano la nostra voglia di tenerezza e di normalità, quel desiderio di essere come tutti: vorremmo continuare a litigare in un bar per un rigore non dato, piangere davanti ad un lungometraggio nel cinema vicino casa, vorremmo, addirittura, voler fare un pranzo lungo una settimana con tutti i parenti vicini e lontani, un Natale dilatato e folle. Vorremmo prendere un aereo per volare lontano da tutto e da tutti. Vorremmo stare da soli per un mese ma solo perché lo decidiamo noi e non la pandemia. Anche la solitudine ha pesi e umori diversi. Quella triste fila di camion militare ha raccontato la nostra lunga storia. E dopo un anno sono ripassati a ricordarci che un abbraccio è importante, che un atto d’amore è necessario: come fare il vaccino per riprenderci la nostra brutta e sporca libertà.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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