In piazza Santa Caterina i bambini giocano a pallone. Ed è bello perché i bambini che giocano in strada quasi non si vedono più. Ora si dicono cose tra di loro soltanto a scuola o messaggiando, quelli di famiglie che se lo possono permettere si frequentano anche nei luoghi deputati: a Inglese, a Judo, a Danza.I bambini di piazza Santa Caterina che giocano a pallone sono bianchi e neri, come la Juve, e li dico, questi colori, in ordine alfabetico rispettando il naturale criterio di uguaglianza che usano nelle loro partite. Lo so perché sono stato a osservarli mentre mi facevo una birretta e due noccioline con i miei amici in un bar che è la curva di quello stadio.Li ho visti, io, e posso assicurare che i bambini di piazza Santa Caterina se un bianco e un nero si prendono a spintoni è per un fuori gioco o uno sgambetto, non per altre faccende. Non so i genitori, ma loro sono così.Bambini come ero io quando ero bambino.E infatti ridono molto, come ridevo io e come dovrebbero ridere tutti i bambini. Tutti. Anche se magari la quota nera, se le cose in Italia continuano così, quando sarà adulta riderà di meno.Io adesso non voglio usare i paroloni tipo “integrazione” e roba simile. Però mi danno l’idea di bambini che si scambiano vite diverse e ne guadagnano.E anche questo mi ricorda di quando ero io a giocare per la strada lì dalle parti di piazza Santa Caterina.Ne guadagnano tutti a stare insieme venendo da vite diverse.Io a esempio ho imparato che la moneta da 50 lire, con una specie di fabbro con il culo di fuori su una faccia e una signora un po’ incazzata sull’altra, per me e alcuni dei miei amici era il superfluo piuttosto raro di una confezione di munizioni Superbum per la scacciacani o di fettucce buone per il “tirelastico”, quelle che si compravano da Pasquali ed erano molto più efficaci e morbide degli elastici ricavati da vecchie gomme di bicicletta.Per altri dei miei amici era il cibo.E stavamo tutti insieme e ci si azzuffava anche e senza tanti paroloni e, senza prediche né di mamme e di babbi e di preti, si imparava, poveri e meno poveri, che la vita è così e cosà.Proprio come questi bambini di piazza Santa Caterina.Ieri mentre ci facevamo la birretta al bar-curva, uno di noi che gli diciamo sempre legna verde ha tirato il fuori il portafogli per pagare il giro e un altro, per prenderlo in giro, ha cominciato a dire “Io ne ho visto cose che voi umani…”.E allora io, come un coglione, invece di fare un sorrisino e tirare avanti mi sono messo a riflettere su Blade Runner.A me quel monologo piace molto, Philip K. Dick a quella roba non ci aveva neppure pensato e forse non è neppure tra i significati del suo romanzo, mentre Ridley Scott lo ha suggerito a Rutger Hauer che ne ha fatto un capolavoro da trenta secondi che valgono quanto tutto il film e il libro messi insieme.E mi dispiace che nell’uso comune venga spacciato per una semplice narrazione enfatica di esperienze straordinarie.Non è così.Ciò che conta non è l’inizio, è la fine del monologo-E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia.Cosa volevano gli androidi? Soltanto offrire agli umani la loro vita diversa in una vita comune che avrebbe fatto del bene a tutti.Ma l’androide capisce che non si può e conclude con un sorriso-Time to die.E’ tempo di morire anche per le nostre speranze di un mondo più bello?Guardando i bambini di piazza Santa Caterina, chiedo ai miei amici-Ma quelli saranno sempre così, voglio dire, insieme, anche tra cinque, dieci e vent’anni?Quello che aveva fatto la battuta mi risponde-Sì, penso di sì.E allora gli perdono anche l’uso improprio della citazione da Blade Runner.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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