Dubai. Area Transiti. Siamo qui ma se questo qui fosse in un altra parte del mondo sarebbe come qui. Qui c’è scritto dove siamo ma, se non ci fosse scritto, questo “qui” sarebbe ovunque. Neanche l’unico indizio evidente, le scritte in Arabo affiancate a quelle in Inglese, riescono a dare un’ anima a questo luogo. Ci sono panini al salame, hamburger, piatti kosher, sushi e kebab, vino e alcolici, burqa e donne “scoperte”, cravatte e magliette colorate, giacche e kandoura. Qui nessuna religione domina, nessuna cultura prevale, nessun Dio ci separa, siamo accostati uno all’altro come le spezie in un souk. Siamo in un “Area Transiti”. Un punto di mezzo tra il posto di frontiera ed il finger attraccato ad un aereo. Solo qualche metro più in là, dietro la barriera di box in vetro del banco dogana, suonava ancora la voce del Muezzin. Poi il rumore secco del timbro che affonda sul mio passaporto e passo. Passo nel silenzio ovattato, accompagnato dallo strusciare dei passi e dei trolley ed interrotto solo dalla voce sexy del sintetizzatore vocale che annuncia i numeri dei voli, in arabo e in inglese che nel sound sommesso sembrano uguali. Ci servirà attraversare il finger, salire a bordo di questo grosso bestione ancora collegato al mondo come un paziente al tubo dell’ossigeno, ci serviranno ancora sei ore in aria, volando alti su montagne aspre, deserti, guerre, transumanze, mare, code in autostrada e luci, per tornare ad essere in un luogo. Per ora siamo nella bolla. Siamo in un “non luogo”. Mancano due ore. Non resta che lasciarsi andare tra questi boulevard colorati ai quali manca solo il cielo di Parigi sopra la testa o il rumore di New York nelle orecchie per poter essere veri. Lasciare che il tempo ci prenda fino all’annuncio sexy del nostro numero, ciascuno il suo. Passo tra il susseguirsi di boutique di lusso, cammino in queste lounge colorate, corridoi di luci, schermi a led, bistrot profumati di baguette e odori di curry e profumi francesi. Incrocio sguardi e volti di ogni colore. Una famigliola indiana, colorata come solo loro sanno fare, mi passa di fianco, lei bella e altera nel suo abito semplice riesce a tenere per mano quattro bambini vestiti come per andare al college, lui dietro che ha mischiato i colori della giacca con quelli di camicia e cravatta come nemmeno il più eclettico pittore avrebbe saputo fare. Sorridono. Dall’altro lato due uomini arabi in tunica bianca (Kandoura) e velo bianco al capo (stampato Gucci) discutono pacatamente guardando dentro uno smartphone di ultimissima generazione. Gli invidio la comodità dell’abito e del sandalo aperto, oltre che il sound morbido e veloce della lingua. Davanti a un banco pieno di profumi una coppia di vichinghi biondi dagli occhi rigorosamente azzurro cielo, si tiene per mano. Dietro di loro i figli, biondi come il grano, of course, mini zainetto sulle spalle, carta di imbarco appesa al collo, e la testa completamente immersa ciascuno nel proprio videogioco. Stanno nel non luogo del non luogo. Tre donne africane, dalle curve ampie e ondulate come dune del deserto, trascinano trolley Made in China, avvolte in stoffe che sanno di tramonto d’Africa, parlano forte. L’immancabile gruppo di Jap, preannunciato dal brusio delle voci e dai click delle macchinette fotografiche sempre operative, mi taglia la strada tra una cascata artificiale di acqua e un enorme negozio di souvenir. Dentro il negozio, una famigliola italiana marchiata da capo a piedi, discute su quale sia il magnete da comprare per lasciare sul frigo l’indelebile segno di essere stati qui. Dietro di loro, immancabile, un bambino frignante (e firmato). Mi sento bene, qui, nel non luogo artificiale che mi avvolge. Come in un acquario colorato. Mentre la voce sexy del sintetizzatore snocciola i numeri del mio volo, uno dietro l’altro, come litanie di un rosario, mi avvio alla mia fila ordinata del desk di imbarco e penso. Penso a che cosa abbia immaginato chi ha costruito qui nel deserto questo enorme crocevia del mondo. Mi piace pensare che non abbia pensato né a numeri né a business turistici, né a conti economici né a calcoli strutturali. Mi piace pensare che abbia immaginato di creare un mondo perfetto, dove shakerare in armonia razze e colori, sabbia e mare, luci e profumi, suoni e voci, lingue e credi, campane e voci di Muezzin, pensieri, amori, rughe e sorrisi. Forse la stessa cosa che avrà immaginato ciascun Dio quando ha disegnato per ciascuno di noi questa enorme palla colorata che ci contiene, sospesa nello spazio. Però poi la storia non è andata così. Peccato. Entro nel finger, esco dalla bolla. Dentro questo enorme coso si sente già troppo parlare italiano, cerco il mio posto, un po deluso. Nella mia fila ritrovo la famiglia indiana, l’uomo che ha mischiato i colori di giacca camicia e cravatta è accanto a me e già sorseggia una improbabile bevanda colorata offerta dalla assistente di volo. Odora di curry. Lui. Mi saluta e sorride mentre tiene la mano della figlia vestita da college. Vanno a New York, via Milano. Sorrido anche io, non so perché, ma mi fa felice che lui sia qui. Ancora un po di “bolla” mi fa star bene. Ci alziamo lentamente sulla pista. Sotto, lo stacco tra il deserto e il mare. Il comandante dice che a Milano fa freddo, e c’è nebbia. Ciao bolla. Si torna a casa. Speriamo che un Dio,chissà dove, possa disegnarti ancora.
In questa categoria sono riuniti una serie di autori che, pur non facendo parte della redazione di Sardegna blogger collaborano, inviandoci i loro pezzi, che trovate sia sotto questa voce che sotto le altre categorie. I contributi sono molti e tutti selezionati dalla redazione e gli autori sono tutti molto, ma molto bravi.
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