Cos’è la politica senza il sogno? Niente più che mera e inutile retorica, promesse incastonate in una cornice inestirpabile, farfalle senza ali. Perciò, stufo di ascoltare parole vuote e politichese spinto, mi sono fatto più volte ammaliare dai comizi indipendentisti che, durante le campagne elettorali, approdano nelle piazze, respirando una passione politica che credevo estinta o affidata a manichini con bandiere da sventolare a comando sulle note di canzoni demenziali. Sono andato a leggermi i programmi e ne ho assaporato con piacere il gusto rivoluzionario, la folata di libertà, la passione oratoria. Ho cominciato a pensare che “sì, forse si può fare sul serio”.
In realtà no, non si può fare. Non ancora, almeno. Per tanti motivi, dalla frammentazione cronica alle manie di protagonismo dei singoli, dalle divergenze sulle strade da percorrere all’incapacità di coinvolgere il popolo. E su quest’ultimo aspetto volevo soffermarmi perché non è difficile capire che superare la sindrome dello zerovirgola abbia a che fare parecchio con la questione. Ho letto, su questa e altre pagine, manifestazioni emblematiche di arroganza verbale tendenti a traghettare ogni discussione sui fatti verso lidi diversi, gli stessi in cui un’immaginaria sbarra apre e chiude l’accesso in base al grado di presunta sarditudine. Per accedervi, devi essere omologato e revisionato in base a standard etnico-culturali che fanno di te un vero sardo doc in grado di poter esprimere un pensiero corrente e coerente su temi cari alla nazione.
In base a questi standard, per esempio, è necessario considerare il povero Doddore Meloni un martire della causa indipendentista. Se poni dubbi e interrogativi o semplicemente non sei d’accordo, vieni impallinato come nemico della patria e persino bollato come neofascista. Eppure gli argomenti per dissentire da una certa epica legata al personaggio, almeno per quanto mi riguarda, non mancano e mi pare siano oggettivi. La conquista di Maluentu mi aveva riportato alla mente l’occupazione di piazza San Marco del ’97 con il blindato finto. Erano i giorni della secessione leghista, di Bossi che girava in canottiera intima sulle spiagge della Sardegna, di un’indipendenza padana che stentavo a comprendere. Eppure loro stavano al Governo del paese e ne condizionavano le sorti, dividendolo tra grandi lavoratori al nord e terroni sfaticati e sanguisughe al sud, mentre in Sardegna l’ideale indipendentista volava rasoterra senza mai riuscire a esprimere rappresentanti neanche nel parlamentino sardo. La conquista di Maluentu, a dircela tutta, fu un atto poco accorto perché mancavano le condizioni anche per poterla considerare simbolicamente importante, priva com’era di un minimo supporto popolare. Peraltro non mi risulta che, anche all’interno dei vari movimenti nazionalisti, sia lo sbarco che le altre intraprese di Meloni godessero di ampi consensi.
“Martire” è parola pesantissima. Scelgo, quindi, vittima. E vorrei adoperarla per ricordare, per sommi capi, la storia recente di Bruno Bellomonte, il capostazione sassarese esponente di “A manca pro s’indipendentzia”, gli indipendentisti di sinistra. Incriminato perché ritenuto membro di un’associazione sovversiva, accusato di essere affiliato alle nuove Br, sospettato di aver progettato un attentato diretto al G8 di La Maddalena da compiersi per mezzo di telecomando e aeroplanino esplosivo, ingabbiato in regime di carcere duro per 29 mesi e perciò licenziato dalle Ferrovie, Bellomonte attende ancora di essere risarcito. Le accuse nei suoi confronti erano gravissime ma ingiustificate. Un giudice, però, lo ha riconosciuto e il ferroviere è stato liberato. Significa che la giustizia, pur restando fallace, potrebbe non essere quel meccanismo feroce al servizio del Sistema pronto a schiacciare sul nascere qualsiasi scomoda deriva ideologica. Significa che di vittime ne nascono e ne muoiono ogni giorno. Significa pure che gli apparati dello Stato continueranno a tenere sotto stretta osservazione i movimenti considerati pericolosi e non mi pare ci sia alcun elemento di novità in proposito.
Continuo a pensare che nel sogno d’indipendenza ci sia, oggi, qualcosa di più concreto rispetto al passato. Ma parlare ai sardi significa conoscere i sardi: come parlano, cosa chiedono, come e dove vivono. Significa evitare di creare élite sul modello “duro e puro”, imporre ragionamenti e scelte, esiliare chi parla italiano nel girone dei “bannati”, presentarsi come i salvatori dell’antico vaso e pretendere che il tempo non sia mai trascorso, che i condizionamenti non siano avvenuti, che la Sardegna sia abitata da un gruppetto di sardi veri circondati da un milione e mezzo di persone prive di identità. Sono sardo e me ne vanto ovunque, anche se il sardo non lo parlo, anche se ho mille lacune sulla storia della mia terra che mi sforzo di colmare, anche se vivo in un porto di mare dove tutto si mescola, anche se può capitare di pensarla diversamente e persino di scriverlo.
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