l'isola che non c'è
Ci metti poco per andare a casa loro. Bastano otto ore di volo e arrivi a Zanzibar, un’isola davanti alla Tanzania, che proprio Tanzania non è e si capiscono molte cose quando si vivono da vicino. Con il visto di soggiorno di soli tre mesi abbandoniamo l’aeroporto internazionale, non prima di aver pagato 50 dollari americani per il visto d’ingresso, insieme ad un piccolo gruppo di cafoni italiani che subito commentano la profonda ingiustizia per la tassa e, aggiungono sarcastici, che sarebbe giusto se cominciassimo a farla pagare anche noi a quelli che scendono dai barconi. Vorrei rispondere che il nostro nuovissimo aereo non corrisponde alle luride zattere e vorrei aggiungere che qui, noi, ci siamo venuti per scelta, ma so che è tempo terribilmente perso. Scoprirò più avanti che uno dei cafoni, chiacchierando in piscina con un altro italiano, ha la soluzione per risolvere la crisi nel nostro paese: aumentare il nero, perché il sommerso fa prosperare le piccole imprese e permette a chi lavora di venire in vacanza da queste parti. Un curioso modo di vedere il mondo e di come la gente pensa di aiutarli a casa loro.
Abbandoniamo l’aeroporto di Stone Town, la città dove è nato Freddy Mercury, per spostarci con un autobus dotato di aria condizionata, bottiglie d’acqua e sorrisi dell’autista, verso il nostro resort, a 35 km. di distanza. Amo sempre questo primo contatto verso mondi sconosciuti. Mi attrae osservare tutto senza nessun filtro, ne degli indigeni e ne tantomeno delle guide turistiche che tendono, in tutto il mondo, a folklorizzare tutto. Il primo contatto racconta di mondi vicini, seppure diversi. Ci sono i colori di Bali, di Cuba, qualche raccordo con il Venezuela è l’isola Marguerita, c’è la polvere che accompagna e addolcisce il paesaggio. Il nostro resort è molto piccolo e le camere sono spaziose. Si respira un’aria sudamericana o, visto che questo è il mio primo viaggio in Africa (escluderei l’Egitto e Israele) ci sono molti colori caldi e simili a quelli visti nell’estremo occidente del mondo. Ci sono stati i portoghesi, gli olandesi, gli inglesi e anche i tedeschi da queste parti, ma il loro saluto è diventato internazionale: “Hakuna matata”, una locuzione in dialetto swahili utilizzato in Tanzania e in Kenia e dalle nostra parti è divenuta celebre perché è stata inserita nel film animato del Re Leone. Significa “non c’è problema” ed è ben inserita in questo contesto minimalista dove sembrano mancare molte cose ma, in ogni caso si può sopravvivere. Tutti ti salutano aggiungendo Jambo Jambo, altra parola swahili che significa semplicemente: ciao!. Professano la religione musulmana ma, anche in questo caso, occorre puntualizzare. Sono, per il 97% (il resto si divide tra cristiani e induisti) di fede musulmana ibadita, la famosa terza via tra sunniti e sciiti. Ce lo spiega, seppure sommariamente, la guida che ci accompagna a visitare la capitale. Ci tiene ad affermare che sono praticamente unici nel mondo, oltre al sultanato dell’Oman, a professare questo islamismo molto moderato che ripudia qualsiasi violenza. Anche in questo caso qualche italiano aggiunge sommessamente che non ci sono musulmani buoni e che sono tutti cattivi. E’ difficile entrare tra le pieghe della vita ed è difficile provare a comprender e la complessità degli uomini ma, niente, neppure quando Arnold (si fa chiamare così la nostra simpatica guida) ricorda che loro considerano gli altri musulmani non come miscredenti ma solo come coloro che rinnegano la grazia di Dio, ma convivono con tutti gli scettici italiani riescono a convincersi. Hakuna matata vorrei aggiungere, ma non mi viene. La visita a Stone Town o Zanzibar City che comprende la città vecchia, dichiarata patrimonio dell’Umanità dall’Unesco, è come camminare tra vecchi documentari polverosi ma magneticamente interessanti. E’ un labirinto di voci e di suoni, colori sparsi che però non riescono a filtrare, almeno non subito, l’esplosione di magnetismo che la città sembra avere. Nei vicoli riescono a passare solo motorini: sono tantissimi e tutti, gentilmente, suonano avvisando della loro presenza. Gli abitanti di Stone Town vedono il mondo con assoluta discrezione dentro un’architettura pasticciata e bellissima: ci sono elementi arabi, moreschi, persiani, indiani e c’è, soprattutto quell’architettura coloniale che avevo visto all’Avana. Un bianco ormai sporco e decadente, un bianco lentigginoso di palazzi che si ergono davanti al mare e con panorami che accolgono da una parte la moschea e poco vicino la chiesa anglicana di Cristo, dove si trova una croce fatta con il legno dell’albero ai cui piedi venne sepolto il cuore di Livingston. Ma quella chiesa ha dentro un altro terribile destino, anticipato dal monumento che è davanti. La chiesa sorge sulla piazza dove in passato si teneva il più grande mercato degli schiavi: pare che l’altare sia posizionato nel punto esatto dove gli schiavi venivano legati per essere frustati. Ed è in questo preciso momento che qualcosa cambia: spariscono i colori sudamericani, sparisce la gioia e quei sorrisi che ci accompagnano in tutta l’isola, sparisce Hakuna Matata perché qui, davanti a questo altare e dentro quelle celle che visitiamo dove, in pochi metri quadri, venivano ammassati anche cinquanta uomini che sarebbero stati successivamente venduti, qui ci troviamo davanti alla cattiveria vera, all’odio inutile e stupido che gli uomini hanno terribilmente costruito nei confronti di altri uomini. E qui, per fortuna, il cuore di tutti si schiude, si rimpicciolisce e nessuno, nel gruppo, riesce a parlare. Ritornare alle vie che, come un labirinto ci ingoiano nella città vecchia, ci riporta alle parole e ci trascina verso il mercato di Darajani un vero e proprio bazar coloratissimo e dove gli odori delle spezie si miscelano poco sapientemente con quelli della carne e del pesce. L’igiene non è il punto forte e se dovessimo osservare tutto con occhi occidentali questo luogo non potrebbe neppure essere aperto, eppure rappresenta il momento più pasticciato e bello di tutta la giornata trascorsa a Stone Town. Facciamo anche un passaggio davanti alla casa dove pare (non è infatti certissimo) sia nato Freddy Mercury e qualcuno ha un piccolo sussulto. Io penso che l’aria della canzone “Barcelona” sia legata anche ai colori di questa strana città che ricorda anche, sotto alcuni aspetti, la Gerusalemme Copta e Armena, quella dai colori tenui e i silenzi lunghissimi. Ci avventuriamo verso i giardini di Forodhani, di fronte al porto arabo dove vengono ospitate tutte le sere delle bancarelle dove di gustano le specialità culinarie dell’isola: l’immancabile kebab, il pollo fritto e la samosa, un piccolo triangolo dorato con all’interno della carne, formaggio, peperoncino e coriandolo. Finiamo per goderci il tramonto in un bar davanti al porto e capisco, per la prima volta, che i colori dell’Africa non sono i nostri. Qui il tramonto non ha venature: è compatto, forte, di una densità che non lascia spazio a nessuna tinta acquarello. E’ un tramonto su un mare dolcissimo in una calda serata d’Africa.
Il mare è l’elemento principale del viaggio. Un mare che cammina tra la sabbia bianchissima, ma convive anche con le maree frequenti soprattutto nella parte est dell’isola, nella zona di Uroa, dove c’è il nostro villaggio. E’ stranissimo svegliarsi e rendersi conto che la spiaggia si è come allungata e oltre a cambiare aspetto ha modificato la sua morfologia, restituendo colori freddi ma intensi, impossibili da riscontrare in qualsiasi parte del mondo. Quelle barche che la sera si dondolano tra un mare di un blu intenso la mattina sembrano scheletri in attesa di avvoltoi che li spolpino. Invece i proprietari ne approfittano nei momenti di bassa marea per fare il carenaggio. Hanno anche il tempo di ripararla e dipingerla senza mai riportarla a secco. Con una di quelle barche riusciremo il penultimo giorno a raggiungere la penisola di Pingwee, luogo assolato e bellissimo, con un tramonto degno dei colori utilizzati da Gaugain.
Il mare è il vero protagonista. Quello di Kendwa e quello di Nugwi o quello adiacente a Prison Isalnd vicino all’isola che non c’è. L’isola della prigione ha un nome sbagliato in quanto si dovrebbe chiamare più appropriatamente Changuu island perché il carcere, seppure pensato alla fine dell’800 come una vera e propria colonia penale simile a quelle che sarebbero sorte in Italia nelle isole di Pianosa, Capraia e Asinara, non è stato mai aperto in quanto l’allora protettorato britannico che governava l’isola ritenne più ideoneo ospitare malati di malaria da tenere in quarantena. Resta, come costruzione, quello che sarebbe dovuta essere la diramazione centrale della prigione, un grande cortile e qualche sala, ma non ci sono resti di camere o di celle. Nell’isola ci sono anche delle enormi tartarughe meta di visite dei turisti ma, in realtà, non troppo belle da vedere. Vicino a Prison island c’è Pange island chiamata dagli occidentali “l’isola che non c’è”. Questo piccolissimo lembo di terra la mattina emerge dalle acqua e poi la sera, per via dell’alta marea, viene sommersa completamente. Sul minuscolo atollo troverete una bandiera dei quattro mori. Una donna sarda di Serramanna si è stabilita da oltre vent’anni a Zanzibar e ha iniziato un’attività molto redditizia: tutti i giorni sbarca con 22 persone sull’isola che non c’è e prepara ottimi pasti a base di pesce, con la samosa e la ricotta dal tipico sapore sardo. Il mare unisce, il mare mischia le storie e le mantiene dolci.
Quel mare che ci ha accompagnato per quasi dieci giorni, quel mare che sa accarezzare gli umori, che riesce a fare della terra poesia; quel mare che restituisce la vita e accarezza l’anima. Quel mare, quel grande e immenso mare che mi avvolge da una vita, a Zanzibar si sente e si vive intensamente.
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Le foto sono state scattate a Zanzibar dall’autore con machina fotografica Nikon d90.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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