Happening? E diciamo così, giusto per essere politically correct. Ma l’avanguardia degli anni Cinquanta non c’entra con il successo di questo “Gran Caffè Astra” di Mario Lubino, sugellato da una straordinaria sintonia tra palco e platea; un corale “Evviva!” che viene da lontano, è soprattutto un’antica questione di cuore, cioè il sentimento profondo del teatro, che quando si rivela butta giù la quarta parete. E dunque il “locale”, l’ambiente, che sia un gran teatro o un povero caffè chantant, diventa una sola cosa con la rappresentazione, un’entità totale a sé stante. Direi, infatti, che il nuovo teatro comunale Astra è stato il dodicesimo personaggio, forse il vero protagonista di questa geniale e per molti aspetti innovativa rivisitazione del genere della farsa prodotta dalla Compagnia Teatro Sassari: il teatro fisico, sottratto dall’amministrazione civica di Sassari a una poco allegra memoria di decadenza onanistica (al termine del declino, dopo essere stato un glorioso “Augusteo”, diventò un cinema a luci rosse e chiuse i battenti quando la venus solitaria gratuita di YouPorn mise in crisi quella a pagamento dei cinema specializzati. Rivede ora la luce con la ristrutturazione e l’affidamento in gestione a un gruppo di compagnie di cui è capofila Teatro Sassari ), diventa teatro immateriale, personaggio immaginario ma anche concreto, perché è fatto pure delle sedie dove noi pubblico siamo seduti, del botteghino dove avevamo fatto la fila, del bar dove abbiamo chiacchierato tra i due atti. Allora il “Gran Caffè Astra” diventa non soltanto rilettura dell’affascinante genere del Caffè Chantant, ma anche un più complesso, strutturato e tuttavia godibilissimo uso del metateatro, cioè del teatro nel teatro, il teatro che racconta sé stesso non soltanto nel rappresentarsi sotto forma della buffa e malinconica compagnia di guitti che nel primo atto prepara rovinosamente lo spettacolo che costituirà il secondo atto, ma, in questo affondo ideato da Lubino, addirittura nel raffigurarsi come luogo fisico, lo stesso che ospita la realtà vissuta dal pubblico e dagli attori.Insomma, una prova che conferma la collaudata professionalità, tra le più alte nell’isola, di questa compagnia teatrale erede consapevole della genialità del suo fondatore Giampiero Cubeddu.Pensavo proprio a questa professionalità mentre osservavo Alessandra Spiga e Teresa Soro riprodurre con sapiente e travolgente umorismo lo sketch delle due comari-guitte che sparlano del capocomico. E pensavo ad Alessandra, ora trasfigurata in questa perfetta macchietta comica, che soltanto pochi giorni fa, sullo stesso palcoscenico, commuoveva e stupiva il pubblico incarnando la vedova ottantenne di Misuraca che su una poltrona riviveva persino gli aspetti più intimi del suo amore per il marito. Una prova straordinaria di intensa recitazione drammatica dove l’erotismo veniva tinto di passione delicata e perdeva ogni volgarità. Così come pensavo a Teresa e a tutte le sue parti tragiche di grande successo, tra le quali la recente “Madre” di Grazia Deledda, mentre faceva la guitta nel primo atto e la comicissima donna dell’apache parigino nel secondo.E che dire di Mario Lubino? Oggi bizzarra caricatura di capocomico perfettamente reso, e soltanto avantieri applauditissimo interprete di un tragico, onirico e tuttavia realistico Pasquale Tola assalito dagli spettri delle proprie colpe.E per tutti si potrebbe lo stesso: un cambio di registro attoriale, continuo e perfetto, che si chiama professionismo, ciò che l’ormai unico mecenate del teatro, il denaro pubblico, deve distinguere e valorizzare.La regia di Mario Lubino e di Alfredo Ruscitto è stata armonica. Ed è stato bello constatare come ciascuno, nella costruzione di questo spettacolo, abbia apportato le proprie qualità insite. Per Mario, a esempio, oltre alla certosina cura del particolare e la ricerca sul campo della prova in palcoscenico dell’effetto magari sfuggito alla prima fase di scrittura del testo, la sua convinzione di una koinè del teatro, un’universalità linguistica che nella resa deve rendere altrettanto efficace e comprensibile il sassarese come il napoletano, il siciliano e persino idiomi che non appartengano alla radice italica. Per Alfredo è sin troppo facile individuare la sua anima davvero napoletana reincarnata nella lunga esperienza del teatro in Sardegna. Questo umorismo malinconico, dove la fame, il tradimento, la miseria fanno ridere ma, accidenti, restano sempre fame, miseria e tradimento. Ruscitto è capace di rendere questo senso esistenziale della scena in una poesia straordinaria della costruzione dello spettacolo e della propria personale recitazione. Entrambi i registi hanno fatto parte del cast ed entrambi hanno brillato. Per quanto riguarda Lubino, citerei soprattutto lo sketch della prova di una scena tragica di madri morenti e sorelle disonorate, con Teresa Soro e Alessandra Spiga a reggere le parti delle attrici, Lubino stesso quella del capocomico-regista e autore del testo e uno straordinario Michelangelo Ghisu quella del suggeritore. E’ stata, per risate e applausi a scena aperta, forse il clou di questa serata.In quanto a Ruscitto attore, è stata emozionante, in particolare, la sua interpretazione di “M’aggia curà” di Pisano e Cioffi. Il modo più comune di interpretare la macchietta dell’uomo sofferente per un tradimento è quello di evidenziare le corna, l’aspetto comico dell’amore distrutto. Nino Taranto e persino Peppe Barra non sono sfuggiti a questa tentazione. Alfredo, invece, ha sembrato ricordare che questa canzone è stata scritta negli anni Quaranta, quando su Napoli cadevano le bombe e sembrava non esserci futuro, e la sua interpretazione, pur non rinnegando il comico, era intrisa di una sorta di tristezza cortese, non esibita, un messaggio sotteso al pubblico che diceva: ridete pure, ma pensate anche al mio dolore. Significativa, per un’operazione opposta, anche la sua interpretazione en travesti di “Balocchi e profumi”, canzone degli anni Venti esplicitamente tragica (nientemeno che una bambina morta), che Alfredo, senza cambiarne una virgola, ribalta in comicità pura con l’aiuto del coretto, macchiettistico nella sua serietà, costituito da Paolo Colorito e Aldo Milia.Pina Muroni, la “soubrette”, è stata un’ eccellenza di questo spettacolo. Cantante di alta qualità e musicista di altrettanto alta professionalità, ha mostrato pure le sue non indifferenti capacità attoriali interpretando tra continui applausi la figura della sciantosa. Fusione tra musica e recitazione che probabilmente l’ottima musicista ha affinato nelle numerose partecipazioni alle indimenticabili stagioni delle operette con la regia di Giampiero Cubeddu. Ninì Tirabusciò e Lilì Kangy sono rivissute splendidamente in questo contesto, ma Pina Muroni ha interpretato alla perfezione anche la parte maschile della voce narrante di “Dove sta Zazà” ed ha aggiunto applausi agli altri applausi nella scenetta di “ ‘A camesella”, interpretata con Alfredo Ruscitto, dove il noto furore voyeuristico-amoroso dello sposino che finalmente vuole scoprire la sua sposina (famosa la versione di Totò in “Siamo uomini o caporali?”), viene riletto nel disincantato e dolcemente allegro confronto di una coppia ormai matura e colma di autoironia.Alberto Lubino, direttore del locale, (irresistibile nel finale della poesia letta per affascinare la soubrette e contestata in ogni verso dal pubblico) e Pasquale Poddighe, arcigno e pacioso padrone, sono stati bravissimi nel dare una necessaria cornice di comica serietà alla follia incontenibile dei guitti, così come il “barzellettiere” Aldo Milia e il comico Paolo Colorito (ancora applausi per il suo “Rea confessa”) hanno completato il carattere dell’operazione, riportando il clima del varietà, l’evoluzione più moderna del Caffè Chantant delle sciantose.Una citazione particolare merita Luca Sirigu, “Il musicista”, vero musicista che al suo pianoforte, in una comica serietà mai scalfita dalle smorfie e lazzi che gli volano intorno e ogni tanto persino lo colpiscono, ha fornito un perfetto accompagnamento a ogni momento dello spettacolo.C’è stata una sola pecca in questa bellissima produzione. Un bis mancato. Sbaglierò, ma penso che un finale meraviglioso, dopo la bellissima esplosione di “Ma ‘ndo vai” sulle silhouette degli attori immobili, riportati dal sipario che si chiude alla loro dimensione immaginaria, sarebbe stata un’improvvisa riapertura del sipario, con il pubblico che ancora applaude, per una ripetizione di “Caddarina Pizzinna Trappera” interpretata magnificamente da Alessandra Spiga. Nella scelta di non darle una base musicale vera e propria ma la cadenza ritmata della poesia tragicomica, è stata una perfetta manifestazione dell’universalità che questo genere ha raggiunto per molti anni dell’Ottocento e Novecento, raggiungendo anche Sassari e il Caffè Roma di piazza Azuni del commendator Giacinto Lucchi, dove nel 1900 la cantante “brillante” Zelinda Molinari, più brillante che cantante, fece diventare famosa la storia della sartina ingravidata e abbandonata. E’ la stessa storia di Lilì Kangy e Ninì Tirabusciò,, in apparenza ammalianti sciantose, in realtà povere ragazze che vogliono sfuggire alla miseria e capiscono che per affascinare il ricco “habitué” o il padrone del locale non occorre la musica ma una coscia scoperta e soprattutto la “mossa”. Per me è il vero simbolo di quella “koinè” evocata in questo spettacolo.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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