Otto anni fa, letto “Lo Stato fascista” di Sabino Cassese, ebbi la percezione che qualcosa di importante e per me nuovo fosse stato detto sul Ventennio: visto da Cassese – più che sotto il consueto aspetto del “regime” – nell’ottica dell’organizzazione burocratica. E mi colpì l’enunciazione di una continuità tra lo Stato liberale, lo Stato fascista e lo Stato democratico. Affermazione che, se riguarda non soltanto l’assetto strutturale ma anche una più generale filosofia dello Stato, assume una grossa valenza storica e politica. Trovai dunque un significato sospeso, in quel saggio. E ora lo trovo completato in una vera e propria teoria storica nel libro di Guido Melis “La Macchina imperfetta. Immagine e realtà dello Stato fascista”, pubblicato dal Mulino. Un libro che, dice Cassese, “si colloca a pieno titolo accanto all’altro grande studio sul fascismo, la biografia mussoliniana di Renzo De Felice”. E il giudizio mi consola perché quando leggendo il libro di Melis ho pensato qualcosa del genere (a chi non si intende troppo di storiografia del Fascismo spiego che sarebbe come collocare un nuovo poema accanto al Faust), temevo di essere stato preso da un’iperbole tipica del profano, del dilettante, come io sono, appassionato e curioso di storia del fascismo ma non certamente dotato degli strumenti valutativi dello studioso. Un giudizio, quello di Cassese, peraltro confermato da un altro grande storico qual è Manlio Brigaglia, che definisce “magistrale” il saggio di Melis. E vista la mole di materiale e la ricca descrizione della burocrazia e della società italiane nel Ventennio, non mi stupirò se qualche critico anche per questo libro userà l’aggettivo “monumentale” consueto nel definire la biografia di De Felice. Credo che sul piano politico ci sia una lezione fondamentale nel saggio di Melis. Che se lo Stato liberale era buono anche per lo Stato fascista e se molte parti di questo meccanismo continuano a esistere nello Stato democratico, è evidente che nel cuore dell’amministrazione persistono strumenti di cui una dittatura si può facilmente avvalere pur nella incapacità di costruire uno Stato nuovo, a suo uso e consumo, come Mussolini diceva di avere fatto. Melis aiuta a capire quanto siano insidiosi e potenti e ancora vitali gli strumenti amministrativi che sostennero giuridicamente la lunga sospensione della libertà in Italia, l’infame tradimento dello Statuto con le leggi razziali e il bellicismo che finì di portare il Paese alla rovina. E quanto sia importante conoscere ogni aspetto del Fascismo storico per capire quanto il fascismo nei suoi aspetti ideologici e sociali sia ancora presente e pronto a concretarsi in una nuova fase che trova alimento nell’ignoranza del passato. Il Fascismo storico fu una strana categoria, un’ideologia pragmatica rozza ma insidiosa. Rozza perché non riuscì mai a costruire e neppure a teorizzare uno Stato, se non con superficiali enunciazioni. Ma riuscì ad adattare la struttura amministrativa alle proprie esigenze e adattarsi alla potenza espressa dai vecchi ceti burocratici, che soltanto formalmente aderirono al Fascismo, conservando un’intima convinzione liberale che espressero anche in attività fondamentali. Tutto nello Stato fascista era regolato dal compromesso, una macchina imperfetta, appunto, come la definì Giame Pintor. Sintetizza questa condizione il dubbio dello stesso Melis, a lungo incerto se utilizzare nel sottotitolo del suo libro la dizione “Stato fascista” (quella infine prescelta) o “lo Stato nel fascismo”. Un’esitazione che dà conto della scoperta di questo vecchio apparato che subisce l’irruzione di una nuova classe dirigente politica riuscendo a sterilizzarne “sapientemente i batteri, riducendoli quasi sempre alla sua misura burocratica”. Le riforme sono stentate e tardive, persino il mito corporativista, quello che gli sciocchi e pericolosi emuli neo fascisti del Duemila propongono come risolutiva innovazione dei rapporti di lavoro, resta una religione economica soltanto sognata. La vera sottaciuta rivoluzione economica è invece lo Stato imprenditore, che nulla ha a che fare con il corporativismo e che continua a esistere anche dopo la caduta del Fascismo. Lo Stato ambiguo: il fascismo repubblicano che divide il potere con il Re, il fascismo anticlericale che divide il potere con la Chiesa, il fascismo rivoluzionario dello Stato-partito che, pur modificando la Costituzione liberale, divide il potere con i vecchi modelli ottocenteschi “ideati – ricorda Melis – dai maestri del diritto costituzionale e amministrativo”. Tutto è imperfetto e a tutto il fascismo si adegua per conservare il suo potere pervasivo. La classe dirigente del Paese, pur nel generale consenso al Regime, conserva in gran parte la continuità culturale con il passato. La tendenza accentratrice dello Stato fascista resta frustrata dai poteri locali, dai regionalismi, dalle fratture economiche e sociali: “Insomma, un totalitarismo sempre annunciato e mai interamente realizzato, un sistema di istituzioni imperfetto, fatto di vecchi e nuovi materiali confusamente assemblati senza un progetto lineare”. E un Regime prontissimo al compromesso, soprattutto tra vecchio e nuovo, pur di continuare a esistere nella sua incompletezza. Ma un fascismo, anche, che impone come legge dello Stato il razzismo insito in sé sin dall’inizio e non frutto, come superficialmente taluni affermano, di un estemporaneo e necessario adeguamento alla Germania nazista. Anche il fascismo storico fu quindi il frutto di una mediazione di interessi: contribuì a formare una nuova società di massa e ne fu condizionato in una rete fitta di contraddizioni. Il libro è l’affascinante racconto (quanto traspare, a proposito, la prossimità di Melis con il giornalismo nella sua prosa così limpida e godibile che non sempre è appannaggio di quel mondo accademico di cui l’autore è autorevole rappresentante) di queste contraddizioni. Una sorta di lotta di sopravvivenza della supremazia del regime ricostruita negli aspetti legislativi e organizzativi, nell’economia e nella società, persino nella cultura. E’ la commedia magistralmente rappresentata di un partito che diventando Stato se ne lascia includere sotto la mediazione del regista- attore, il sedicente grande decisore parte fondamentale di questa “macchina possente, pervasiva, ma al tempo stesso strutturalmente imperfetta”.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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