Oggi Sardegnablogger ospita la testimonianza di Alessandro Pinna, militare della Guardia costiera in servizio a La Maddalena, che per tre mesi è stato in missione nell’Isola di Lampedusa. Buona lettura!
***********************************************************************
A chi, tra i maschi che hanno assolto gli obblighi di militare di leva, specialmente in marina, o a quelli che dal 2005 in poi hanno scelto di svolgere come volontari il servizio militare, non è mai capitato di sentirsi dire “ti mando a Lampedusa!”?
Durante il famoso corso addestramento reclute che durava un mese, magari dopo una bravata, dopo un qualcosa che non doveva essere fatto, e spesso accompagnato da urla degli inquadratori, o superiori gerarchici. Penso sia capitato a tutti, me compreso, che ho avuto l’onere e l’onore di fare la leva, e successivamente il volontario. Tre parole capaci di destare terrore e far diventare un angelo anche la più scalmanata delle reclute. Tre parole che erano ben più che una minaccia, erano un antidoto, anche se ben pochi sapevano che nessuno degli inquadratori o dei superiori aveva il potere di scegliere quale sarebbe stata la destinazione per i seguenti mesi di servizio.
Molti di noi non sapevano cosa fosse o meglio dove fosse Lampedusa, ma vuoi per passa parola vuoi per sentito dire, Lampedusa era una sorta di buco del culo del mondo dove mandare i militari meno meritevoli, insomma una specie di Alcatraz del Mediterraneo. Quando, durante l’ultimo giorno di corso, venivano lette le destinazioni in assemblea e vedevi uno piangere significava che al 90 per cento era stato destinato a Lampedusa, l’altro 10 per cento di probabilità era equamente diviso tra Arbatax (per i “continentali”) Santo Stefano, La Maddalena, Ustica, Pantelleria, Capraia.
Quando, non molti mesi fa, seppi che sarei dovuto andare a svolgere servizio per qualche mese a Lampedusa, nella mia mente ho rivisto quelle scene, riflesse su di me, anche se il tutto era abbastanza affievolito dal fatto che non avevo più 20 anni come quando mi arruolai e che comunque ci sarei stato qualche mese e non per tutta la vita.
Ho trascorso i mesi pre-partenza nella normalità, ovvero scanditi da lavoro, famiglia, amici, caccia e bici. Tutte cose che mi distraevano, e mi facevano sembrare lontana anni luce la data della partenza, che invece si è materializzata come un lampo, il giorno di Santo Stefano trascorso con la mia compagna Angela a fare le valigie cercando di non scordare nulla.
La mattina seguente, all’alba, la partenza: 16 ore di navigazione, 400 miglia di mare e basta. Sì, in quei momenti ho pensato ai possibili risvolti negativi che avrei potuto vivere, fino a quando, quasi come un’allucinazione, comparve una lingua di terra bianca, costa a falesie altissime. Per chi non l’avesse mai provato, vedere un’isola arrivandoci dal mare, è un emozione forte, che aumenta proporzionalmente alla lunghezza del tratto di mare che si è dovuto attraversare. “Oh, ci siamo”, ho pensato tra me e me.
È bastato poco per ambientarmi, lavorativamente parlando pochissimo, grazie anche al calibro dei miei colleghi e superiori, forse il meglio della Guardia Costiera Italiana, mentre a livello di vita quotidiana il tutto è stato agevolato dall’aver cercato di provare a vivere più o meno come faccio qui a casa mia, e grazie soprattutto alla gentile concessione fatta dal mio comandante, il quale ha permesso di portare con me la fida Trek Superfly (la mia Mountain bike) con la quale ho tentato di allenarmi, staccare la spina e allo stesso tempo vedere scorci dell’Isola che non avrei mai immaginato.
Girando per il paese, spesso accompagnato o meglio scortati da Rebecca Alex e Nerone, i tre cani randagi – anzi, preferisco definirli liberi, liberi di entrare in ogni locale pubblico di Lampedusa, dal ristorante alla ferramenta, conosciuti e ben voluti da chiunque, dotati di un intelligenza quasi umana, e che malinconicamente mi facevano ricordare che a casa avevo i miei segugi ad aspettarmi – che vivevano fuori dal nostro alloggio. Ho provato a immedesimarmi in un abitante di Lampedusa, come ci si sente sapendo che vivi su un isola a 90 miglia di mare dalla tua provincia, dalla tua regione di appartenenza ma soprattutto dal tuo Stato, quello che dovrebbe farti vivere nello stesso modo di un cittadino di Varese o di Forlì, ma che (come capita spesso a noi Sardi) non ti agevola economicamente se vuoi mettere piede sul tuo Stato, volando o ancor meno in nave. Ho provato a vivere l’isola al 100 per cento nei momenti liberi, semplicemente entrando alle poste a fare delle operazioni, a fare la spesa nei vari market, scambiando due chiacchiere con il barbiere o con il barista, ascoltando lo sfogo del pescatore vicino d’ormeggio. sono riuscito a inserirmi in un gruppo di biker, isolani e appartenenti alle forze dell’ordine presenti sull’isola. Era una figata vedere le loro reazioni, il loro sguardo quando durante un discorso scattava la domanda: “Ma tu di dove sei? Dall’accento non sei siciliano” e io rispondevo: “La Maddalena, Sardegna”. Loro, con occhi sbarrati di misto stupore/vicinanza/ammirazione rispondevano ma “La Maddalena l’isola?” E io ribattevo: “Sì”. Era come se ci si capisse, ci si sentisse compaesani, come se avessimo gli stessi problemi, le stesse abitudini, lo stesso modo di vivere, insomma una sorta di fratellanza insulare, con tutte le ovvie differenze. Ho capito che il popolo Lampedusano è gente semplice, buona, gente abituata a vivere nelle difficoltà, date dai disservizi (provate voi ad entrare in un market e non poter acquistare quello che desiderate mangiare a cena solo perché la nave non arriva da 5 6 giorni causa maltempo, oppure pagare le bollette di luce e acqua più salate perché l’energia elettrica è prodotta dai gruppi elettrogeni, e l ‘acqua resa “potabile” dal dissalatore), gente che vive di mare, e nel mare, e sa che una vita in mare ha lo stesso peso sia essa appartenga ad un ricco turista, o ad un immigrato sub sahariano. Lo hanno dimostrato centinaia di volte, ma la più eclatante è stata l’alba del 3 ottobre 2013, quando tanti tra pescatori e i diportisti andarono con i loro mezzi a tentare di salvare più vite possibili durante il naufragio del barcone che causò 368 morti, a poche miglia dal porto. Ho scelto di fare questo mestiere 12 anni fa proprio per questo motivo, perché salvare una vita in mare non è solo un obbligo dato da convenzioni internazionali e di diritto del mare. Non voglio entrare nel merito del dibattito geo-politico, si potrebbe parlare per giorni per cercare le cause di questa migrazione, ma nella maggior parte dei casi si sfocerebbe nel populismo tanto in voga ai giorni nostri. È facile parlare e giudicare seduti sul proprio divano magari con la pompa di calore a 26 gradi. Durante i soccorsi è capitato spesso, per non dire sempre, di imbarcare o trasbordare persone, bambini di pochi anni di età, scalzi, in pantaloncini corti o con pochi e zuppi indumenti indosso, da giorni in mezzo al mare, in pieno gennaio. Ho pensato che noi siamo solo stati scelti dal destino, destinati a nascere nella parte più fortunata del mondo, ma che comunque tutti nel nostro piccolo migriamo, cerchiamo un qualcosa di migliore, dallo studente che va a studiare in università di Pisa o Milano, al cameriere che si reca a Londra, o a chi dal paesino del centro Sardegna si sposta nei villaggi della Costa per sbarcare il lunario durante le stagioni estive. Ho pensato che anche io sono figlio di una migrazione dato che mio padre, 38 anni fa, ha scelto di abbandonare la sua terra e i suoi cari, per tentare una vita migliore in una terra che all’epoca sembrava l’Eldorado della Sardegna. Una sera dopo 12, 15 ore di mare tornai in alloggio, desideravo solo una doccia bollente: per qualche secondo invece dell’acqua calda scese un getto di acqua gelida. Dopo un paio di imprecazioni il mio pensiero ha percorso 100 miglia nautiche facendomi immedesimare in un migrante su un gommone una notte di gennaio. Ho incrociato sguardi di migranti terrorizzati ma allo stesso tempo felici di aver provato a dare una svolta alla propria vita, senza perderla, annegando come tanti loro parenti o amici. Ho incrociato gli sguardi di medici e infermiere neo-laureati di 25/30 anni , volontari dell’ordine di Malta, operare con freddezza, umanità e professionalità degni di un primario con 40 anni di esperienza. Ho incrociato gli sguardi di una moglie e dei figli di un pescatore morto nell’affondamento di un peschereccio, da noi tristemente consegnato alla famiglia davanti a tutta Lampedusa presente in banchina in un religioso silenzio interrotto solo dalle urla strazianti della vedova. Ho incrociato gli sguardi dei miei colleghi che durante un soccorso hanno aspettato, senza interromperlo, in un silenzio surreale che l’ultimo migrante finisse di ringraziare il suo Dio, prima di salire a bordo. Qualche mese prima di partire per Lampedusa, un collega che c’era già stato, mi disse:”A me ha cambiato la vita, vedrai…”. Aveva ragione. Grazie per avermi mandato a Lampedusa.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
Renatino e i misteri di Roma (di Giampaolo Cassitta)
Cara Cora (di Francesco Giorgioni)
The show must go on (di Cosimo Filigheddu)
Vincerà Mengoni. Però… (di Giampaolo Cassitta)
Ero Giorgia, e ricanto. (di Giampaolo Cassitta)
Piacere, Madame. (di Giampaolo Cassitta)
Se son fiori spariranno (di Giampaolo Cassitta)
Ma Sanremo è Sanremo? (di Giampaolo Cassitta)
Pacifisti e pacifinti (di Simone Floris)
Lo specchietto (di Salvatore Basile)
Da San Gavino a San Cristoforo, quando colonizzammo il Villaggio Verde. Ovvero il trasloco (di Sergio Carta)
Se riesco a buscare 5000 Lire ci vediamo allo Zoom, ovvero le pomeridiane in discoteca degli anni’80. (di Sergio Carta)
Papa Fazio (di Cosimo Filigheddu)
sardegnablogger ©2014 created by XabyArt - graphic & web design