Alcuni anni fa usciva un libro di autori vari, curato da Monica Farnetti, (Iacobelli editore), dal titolo emblematico: “Chi ha paura di Grazia Deledda?” Nella sinossi la motivazione di quel titolo: “l’opera di Grazia Deledda, unica scrittrice italiana ad aver vinto un Nobel, è al centro di un vasto movimento di rilettura e revisione critica. Perché quel premio da parte della critica internazionale, conquistato con pieno merito, non ha finora trovato altrettanto riscontro in Italia (…)”. Se la Deledda non avesse vinto il Nobel, probabilmente oggi sarebbe stata dimenticata, oppure riscoperta tardivamente.
Quest’anno si sono celebrati i 150 anni dalla nascita della grande scrittrice nuorese, morta 85 anni fa, e che ha vinto il Nobel 95 anni fa. Ma perché la cultura italiana, e anche sarda, hanno sempre sottovalutato la Deledda? Come mai, a livello critico, la sua rivalutazione, ormai riconosciuta unanimemente, ha impiegato così tanto tempo? Ancora oggi la Deledda “suona” come autrice minore, scrittrice da romanzo d’appendice e da rivista di moda, confinata come letteratura regionale, difficilmente collocabile nelle grandi correnti letterarie dell’epoca, dal verismo al decadentismo. Nei libri di testo di letteratura e nelle antologie, nel migliore dei casi, gli si dedica un piccolo box, slegato dal contesto, o appena una citazione che ricorda il Nobel, dovuta. Come ha scritto alcuni anni fa un famoso giornalista e blogger, “io vorrei ricordare a chi contesta il Nobel a Dylan che è stato dato a Grazia Deledda”. Quindi ancora oggi, nonostante la vasta opera di rilettura e rivalutazione, Grazia Deledda resta, soprattutto per la cultura italiana, sinonimo di una letteratura romantica e superficiale, ovvero esattamente l’opposto della potenza evocativa, sotterranea e viscerale della grande scrittrice nuorese. Scrittrice, dunque, invisa anche ai sardi dell’epoca, tra cui gran parte del mondo intellettuale. La Deledda, infatti, era accusata di aver fatto conoscere la Sardegna in Italia nel modo sbagliato. Negli anni del fascismo, in cui la tensione alla nazionalizzazione era più forte, andava di moda la letteratura declamatoria e aulica, mentre le tinte fosche e intimiste dell’autrice nuorese ponevano, così pareva, degli ostacoli all’idea che la Sardegna potesse meglio tendere alla modernità e all’accettazione della cultura e della società italiana. Troppi servi e troppi banditi, si diceva, nei suoi romanzi. Non era funzionale, apparentemente, alla lotta per un mondo libero e democratico, per una Sardegna moderna e in grado di raccogliere le future sfide per lo sviluppo, secondo i paradigmi culturali e politici dell’epoca, molto incentrati sul concetto di lotta sociale. Molto più semplice e manifesta la denuncia sociale del verismo prima e del neorealismo poi. Neppure la Deledda poteva alimentare, negli anni successivi al fascismo, una costruzione internazionalista della politica, così impegnata a rappresentare un luogo simbolo, l’isola di Sardegna, che non assomigliava a nessun altro. Deledda era invisa e considerata una “comunista” dal Fascismo, oltreché femminista, ma questo non bastò per redimerla agli occhi della cultura italiana degli anni successivi. I suoi libri furono messi al bando, si dice, per aver negato, al Duce, di scrivere per il regime. L’arte non ha politica. D’altro canto, Grazia Deledda non apparteneva a quel canone stereotipato che tanto faceva alternativo o anticonformista. Donna silenziosa e schiva, intratteneva rapporti intellettuali ma non frequentava i salotti. Stava all’opposto sia dell’idea di “angelo del focolare”, sia dell’idea della scrittrice maledetta e dissoluta, travolta dalla poesia e dalle passioni amorose ed erotiche. Indefessa scrittrice, mentre il grande Verga scriveva un romanzo, lei ne aveva scritto dieci. Donna e scrittrice, dunque, fuori da tutti gli schematismi e le classificazioni, sia politiche, che sociali, che culturali. Una ribelle, una rivoluzionaria poco di forma, ma molto di sostanza. Nel 1902 già aveva scritto, caso unico in Italia, un romanzo che parlava del divorzio, e nel 1909, prima donna in assoluto in Italia, era stata candidata al parlamento come “femminista”, tra lo scherno e le critiche feroci. Nei suoi romanzi, già nei primi anni del ‘900, con grande anticipo rispetto ai tempi, si coglie una sensibilità che oggi definiamo “ambientalista”, in libri dove è l’aspetto antropologico e psicologico, della colpa dell’uomo rispetto al grande spirito della natura, ad emergere. Prima donna italiana a vincere un Nobel per la letteratura, si è solito dire. Dimenticando che è stata la seconda donna in assoluto al mondo a vincerlo, e la prima, come dire, “giocava in casa”, dato che è stata la svedese Selma Lanerlof”. In assoluto, comprendendo tutte le categorie del Nobel, è stata la terza donna, dopo Marie Curie (che ne ha vinto due). Una donna, italiana, in un mondo maschilista come quello scientifico e culturale dell’epoca, che scardina ogni pregiudizio e si aggiudica il Nobel nel 1926. Per la cultura italiana, in parte suggestionata dal benessere della civiltà industriale che partiva dal nord, già rappresentava un fastidio l’idea di una donna emancipata che non corrispondesse a quei canoni di modernità, ovvero che provenisse da un Sud arretrato e, addirittura, da una Sardegna interna, terra popolata da pastori e banditi, ancora più sottosviluppata. A prescindere, pertanto, dal valore della sua opera, che appare comunque indiscutibile, Grazia Deledda si può definire un grande personaggio, anzi, un vero e proprio gigante per la cultura italiana, capace, partendo da una piccola cittadina di montagna del centro Sardegna, di scalare le vette della cultura mondiale. Eppure, chi ha paura di Grazia Deledda? Nel XX secolo si andava dispiegando, con tutta la sua potenza, la costruzione della nazionalità italiana, che dopo aver assestato i confini territoriali doveva unificare, in una omogenea italianità, tutto il popolo. Agli eccessi nazionalisti del fascismo si sostituivano, “per fare gli italiani”, strumenti ancora più potenti, come l’istruzione generalizzata, la televisione e la conseguente cultura di massa. Grazia Deledda non era entrata nel novero di quegli autori, da Manzoni al Carducci, ottimi per la costruzione nazionale delle epoche precedenti. Ma neppure, negli anni della cultura “alternativa” che andava per la maggiore, nel dopoguerra, fu colta l’energia della descrizione dei conflitti di un mondo simbolo che andava a trasformarsi, non furono colti i travagli psicologici e antropologici di chi avanzava ancora verso la modernità lasciandosi alle spalle un nodo irrisolto di valori che si disperdevano drammaticamente. Il paese, tutto teso verso il futuro, la modernità, il consolidamento della nazionalità, non si rese conto della voce, del richiamo della scrittrice sarda che, dalla sua scrivania romana, descriveva il mondo che perdeva i suoi legami solidali, il rispetto che si doveva ai servi, al dovere di ospitalità che si doveva ai reietti, chiunque essi fossero, la sua armonia con l’ambiente, con quelle piante che venivano descritte come se fossero esseri umani, al timore degli spiriti della natura, al senso del sacro, alla saggezza che si reputava agli anziani, al ciclo lento e inesorabile delle cose. Non ci si doveva voltare indietro, non si dovevano avere remore. Il mondo correva veloce senza pensieri, gli affaristi forzavano gli antichi valori, l’irrompere del danaro come valore assoluto trasformava il sentimento comune, il progresso delle macchine si affacciava con la speranza di liberare l’uomo dalla fatica. Il mondo si bruciava e la testimonianza della Deledda era una voce nel deserto, un corpo estraneo alla cultura italiana. Solo Grazia Deledda, solo la scrittrice nuorese, avanti anni dai tempi suoi, si accorse di un mondo intero che scompariva. Ne descrisse l’agonia, grazie allo scenario che la Sardegna dell’interno, terra antica, più antica di tutte, e resistente per inveterata modalità di rapporto con il resto del mondo, le offriva. Non fu colto tutto questo. La poetica dell’autrice sarda fu interpretata come ambientazione esotica, come sentimentalismo, come romanticherie per romanzi d’appendice. Per una strana inversione del senso delle cose, il linguaggio universale della trasformazione in atto nell’uomo, è stato travisato in racconto localistico. Resta l’estrema sintesi con cui l’autrice coglie il sale sulla ferita identitaria di un popolo che diventa l’emblema assoluto della letteratura, che altro non può farsi che espressione di una patria perduta.
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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