Sulla identificazione degli shardana con la civiltà nuragica pesa da sempre una cappa di scetticismo che si potrebbe definire metastorica. Cioè una questione che si carica di significati che vanno oltre la storia. La sensazione è che il segno dalla forte carica positiva attribuita al valore degli shardana, abbia finito, in un certo senso, per nuocere alla ricerca, a causa delle implicazioni politiche e nazionaliste. Accettare l’idea che i nuragici e gli shardana fossero la stessa cosa, significherebbe l’ingresso della Sardegna nella storia, e la qual cosa non risulta essere per nulla neutrale e priva di conseguenze politiche, essendo in contraddizione stridente con la storiografia nazionale. Si dovrebbero modificare tutte le teorie classiche e tradizionali, insomma. Tuttavia vi sono una sequenza di straordinarie coincidenze che rendono plausibile l’ipotesi che gli shardana siano gli antichi sardi nuragici. Coincide il nome, con tanto di prova archeologica. Combacia il periodo storico con una persino sorprendente coincidenza. Coincidono le icone, con spiccate similitudini. Coincidono significativi dati archeologici. Coincide la caratterizzazione bellica e marinaresca. Coincidono le emergenze archeologiche e le fonti che mostrano gli antichi nuragici in giro per il Mediterraneo orientale. Andando per esclusione, non compaiono all’orizzonte, nonostante qualche tentativo, alternative altrettanto compiute. Io, da antropologo, mi sono sempre domandato, all’inverso, che fine avesse potuto fare la straordinaria entropia che manifestava l’isola sarda nel tredicesimo e nel dodicesimo secolo avanti Cristo, e che razza di “bordello” potessero aver fatto costoro in giro per il Mediterraneo, con tutta quella carica energetica. Nessuno se lo è domandato. Ora che l’archeologo Giovanni Ugas, professore dell’Università di Cagliari, ha pubblicato il suo resoconto di studi trentennali sugli Shardana, la sensazione è che ci si debba aspettare, da parte della storiografia ufficiale, un qualche tipo di reazione. Da un po’ di tempo è presente in Sardegna l’egittologo di fama Giacomo Cavillier, responsabile di un progetto con la fondazione da lui stesso diretta che analizza la questione, portandola ad esiti lontani dall’identificazione tra shardana e nuragici. Si tratta di un progetto che analizza la questione con il metodo analitico: cioè analizza gli elementi ad uno ad uno, sottolineandone la mancanza, per ciascuno, di certezza o di esclusività. La radice del nome shardana, ad esempio, non è esclusiva della Sardegna; così come non è esclusivo della Sardegna quel tipo di scudo o di elmetto. Chi volesse farsi una idea di come Cavillier e soci “smantellino” l’ipotesi shardana è sufficiente che consultino in sito internet ove è pubblicato il lavoro. Ora chi vorrà farsi una idea, diversa invece da quella, della questione shardana, si potrà informare tramite gli articoli e la letteratura di merito, tra gli altri, del già citato Giovanni Ugas. È di prossima pubblicazione anche un mio libro sul problema storiografico sardo, dove affronto anche questa questione. Quello che è inaccettabile è invece la trattazione che di una questione così fondamentale per il Mediterraneo antico si fa, ovvero che venga confinata nella burla, nella mitopoiesi, accostando la scienza con la letteratura di genere, e così via. Una trattazione riduttiva e scettica che ora, dopo il ponderoso volume di Giovanni Ugas, ha trovato un ostacolo problematico. Tuttavia occorre dire che la trattazione dell’egittologo e dei suoi collaboratori si attiene ai canoni scientifici e non tracima nello scientismo e nel negazionismo come ho visto fare in altre trattazioni. Merita pertanto un esercizio di confutazione, un esperimento incidentale, comparando lo stesso metodo analitico spesso utilizzato per le questioni della storia antica nuragica ed in particolare per gli shardana. Per non annoiare il lettore, in questa sede così “confidenziale”, propongo dunque un piccolo giallo:
Supponiamo che in un condominio venga uccisa una persona. Vi sono 4 testimoni che vedono entrare Tizio nella casa della persona pochi secondi prima di udire uno sparo, sentito da numerose altre persone della zona. Tizio viene visto uscire, trafelato, pochi secondi dopo, con una pistola in pugno. L’investigatore si presenta al processo piuttosto sicuro: oltre ai quattro testimoni, vi sono altre prove, come la polvere da sparo ritrovata nei capelli di Tizio, una pistola compatibile con lo sparo ritrovata durante la perquisizione a casa, e anche il movente, perché il giorno prima aveva avuto un alterco con la persona uccisa piuttosto violento. Inoltre Tizio non ha un alibi plausibile. Ma l’investigatore trova al processo un avvocato esperto e agguerrito, solito usare il metodo analitico in difesa del suo cliente. Infatti interroga ad uno ad uno i testimoni. Uno notoriamente non era in buoni rapporti con Tizio, il che fa storcere il naso alla corte. Un altro era un ex alcolista, quindi poco attendibile. Un altro era un teste timido e insicuro, e l’avvocato con una serie di domande a raffica riesce a farlo cadere in contraddizione. Resta il quarto testimone senza nessun punto debole. Le persone che avevano udito lo sparo, potrebbero in realtà aver sentito qualunque altro tipo di botto, spiega l’avvocato nella sua arringa, portando a sostegno della sua tesi i rumori caotici della città. Per quanto riguarda la polvere da sparo, l’avvocato ha mostrato come Tizio passi spesso nelle vicinanze di un poligono di tiro, e potrebbe essere quello il motivo del ritrovamento nei capelli. Per quanto riguarda la pistola, l’avvocato riesce a trovare un cavillo procedurale che inficia parzialmente il sequestro dell’arma. Per quanto riguarda il movente, esso da solo non può provare nulla, non tutti quelli che hanno violenti alterchi si ammazzano tra loro. Neppure la mancanza di un alibi dimostrerebbe, da solo, il delitto. Un solo testimone attendibile potrebbe non essere sufficiente, dunque, spiega l’avvocato nella sua arringa, per ritenere Tizio responsabile del delitto.
Se scansioniamo ad uno ad uno gli elementi, quello che ci pareva come ovvio, diventa al contrario poco plausibile. La mente, infatti, nel concentrasi in un solo elemento, tende ad escludere momentaneamente gli altri, e fatica a comporre un quadro d’insieme. Cioè la mente umana, se analizza il dato singolo, esclude il dato complessivo. Se leggiamo la prima parte, quella composta dall’investigatore, non avremo dubbi; ma prendendo per buono quanto mostrato dall’avvocato, potremo anche scagionare Tizio, che verosimilmente è l’assassino. Quando si vuole, pertanto, demolire una ipotesi, è sufficiente applicare questo metodo analitico, facendolo passare per scientifico, ma che in realtà, molto semplicemente, tende ad ingannare la mente disaggregando il dato, isolandolo dal contesto, come una parola che perde il suo significato al di fuori della sua frase. Tornando all’archeologia, il dato disarticolato è dunque confutabile, perché è quasi impossibile che sia univoco ed esclusivo, specie quando ci si riferisce a questioni risalenti a 3000 ani fa. Se prendiamo ad uno ad uno i dati relativi alla questione shardana, è evidente che da soli, singolarmente, provano poco. La radice srdn, infatti, si ritrova anche da altre parti. Se però tutti i dati vengono considerati nel quadro che compongono, la questione cambia, e torna ad essere, quanto meno, plausibile. Sulla questione shardana è evidente che ragioni di natura politica e di conservazione delle acquisizioni hanno reso il dibattito deformato. Niente come l’idea che i nuragici siano gli shardana, del resto, stravolge l’archivio stratificato delle acquisizioni, improntato su una visione conservatrice della civiltà nuragica, chiusa nel suo isolamento cantonale e priva di velleità marinaresche. L’idea che la civiltà prosegua da oriente verso occidente, che la Sardegna del passato sia la proiezione della Sardegna del presente, e l’arroccamento inconsapevole dentro una storiografia nazionale che pregiudica come sardista, etnocentrica, identitaria le visioni libere dai condizionamenti egemonici, si situa all’interno di una consuetudine che, nella sua espressione egemonica, non recede da un convincimento inamovibile.
foto tratta dal sito di Nurnet
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo.
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