seconda puntata
Chi era Loris D’Ambrosio? Ce lo racconta, con buona predisposizione per i ricordi, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nella deposizione del 27 ottobre. Era un uomo di Stato, che incarnava lo Stato, Capo di Gabinetto del Ministro della Giustizia Flick e, precedentemente, aveva lavorato presso la Procura di Roma, assumendo, come ricorda Napolitano, un’eredità molto delicata: “quella del Giudice Amato, ucciso barbaramente dai terroristi, e si era impegnato in quella attività istruttoria che era stata fino a quel momento svolta dal Dr. Amato”. Il dr. D’Ambrosio era una vena importante di questo Stato con un cuore sempre troppo ammalato. Era un punto di riferimento per chi scriveva le leggi e, successivamente, era diventato colui che contribuiva a scrivere le leggi di questo paese. Una persona con la schiena dritta, che aveva un altissimo senso dello Stato e che, quando incontrò Napolitano, divenne ancora più importante, ancora più ingranaggio fondamentale dello Stato, divenne suo consigliere, anzi, Napolitano lo nominò Consigliere del Presidente con un mandato più ampio con gli affari giustizia in generale. Era il raccordo tra il Presidente della Repubblica e il CSM e, più in precisamente, afferma ancora Napolitano “seguiva le vicende dell’Amministrazione della Giustizia, le vicende dei disegni di legge che avessero stretta attinenza con la materia dell’amministrazione della Giustizia”. Loris D’Ambrosio era il raccordo fondamentale tra il presidente della Repubblica e le istituzioni, era un suo fidato consigliere, rappresentava, davvero, una delle punte più alte dello Stato. Perché ci occupiamo di questo, perché dei giudici di Palermo hanno ritenuto importante chiedere ad un presidente della repubblica la sua testimonianza su alcuni passaggi della storia della repubblica? Perché Loris d’Ambrosio aveva paura in quanto erano state pubblicate delle intercettazioni telefoniche tra lui e il Senatore Mancino, allora vice presidente del CSM; paura perché aveva, forse, la consapevolezza che qualcuno, per conto dello Stato, aveva trattato con la mafia. Con i mafiosi. per D’Ambrosio tutto questo era inconcepibile, non era contemplato. Era, anzi, un alto tradimento. Da dove partiva D’Ambrosio? Da un punto, un punto diremmo oggi fondamentale: “Falcone muore perché c’era molta fretta nel farlo morire. Qualcuno sapeva che quello del 23 maggio 1992 poteva essere uno dei suoi ultimi viaggi a Palermo. Pochi lo sapevano. Un cerchio ristretto. Molto ristretto. Qualcuno, quindi, ha dei contatti, fin dal 1992 con la mafia, con Riina, con Brusca, qualcuno che veste l’abito dello Stato. Di questo ha paura Loris D’Ambrosio, di questo si contorce nei ricordi, di questo, probabilmente intende parlare e per questo comincia ad enucleare “ipotesi, solo ipotesi, di cui ho detto ad altri, quasi preso anche dal vivo timore di essere stato allora considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi”. Sono le parole del Dr. D’Ambrosio, sono un testamento pesante dove il presidente Napolitano è chiamato a dare una sua lettura da parte del PM Teresi. Il Presidente quella bozza, quelle parole che sarebbero poi confluite, come testimonianza nel libro della sorella del giudice Falcone, le aveva lette in anteprima e quella bozza informale rimarrà identica anche nella stesura finale. Quelle parole, quella passione, quel legame profondissimo con il Dr. Falcone, come ricorda nella deposizione il presidente Napolitano, è forte. fortissimo. Quelle parole potevano essere un rumore caldo, potevano camminare sull’onda dei ricordi ma, invece, ci raccontavano altro, ci dicono che lui si considerava un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi. Era un uomo di scienza D’Ambrosio e sapeva soppesare bene le parole e quindi, possiamo candidamente affermare che, seppure si trattasse di ipotesi, solo ipotesi, probabilmente vi erano stati indicibili accordi tra apparati dello Stato e il sistema mafioso.
Intanto, all’Asinara.
C’erano pochi rumori che amplificavano un vuoto quasi insolente. Ci si guardava intorno, ci si scrutava e si cominciava a scrivere alle famiglie, alla moglie, alla figlia, alla sorella. Si attendevano risposte. C’era la censura, certo. Ma le parole hanno sempre un peso specifico diverso a seconda di chi le usa. Il carcere era duro, molto duro. Neppure i fornellini a gas per cucinare lasciavano. Perché volevano che si mangiasse solo il vitto dello “Stato.” E niente telefonate e i colloqui uno al mese attraverso i vetri, neppure i bambini si potevano salutare. Ma none era questo il punto. Questo ci poteva stare. Il punto era l’isolamento totale. Quest’isola gonfia di silenzio e con nessuna possibilità di poter contattare qualcuno. Questi riverberi lontani di campane o di suoni misti ad un niente che echeggiava. Ecco, si rischia di diventare invisibili. Questa è la paura. Bisogna partire dai fornellini. Chiamare gli avvocati, predisporre i ricorsi al Tribunale di Sorveglianza. Giocarsi la carta dell’incostituzionalità. Partire dai fornellini. Sembra poco, ma è un punto e poi. Poi si vedrà. Poi…..
(fine seconda puntata)
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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