L’agenda di oggi è dedicata da SardegnaBlogger a Ciriaco Carru, nato a Bitti il 1 settembre del 1963, carabiniere, ammazzato dai banditi il 16 agosto del 1995 nella piana di Chilivani, insieme al suo collega Walter Frau: entrambi medaglia d’oro al valore militare. Non voglio ricostruire quella strage né tessere adesso l’elogio di questi due ragazzi che amavano la vita ma che per fare il loro dovere hanno saputo affrontare la morte. Voglio parlarvi di un loro superiore. In quegli anni al comando provinciale di Sassari era di servizio un ufficiale che chissà perché mi ricordava Carlo Alberto Dalla Chiesa. La rassomiglianza fisica non era straordinaria, ma aveva l’ironia e insieme la determinazione che avevo sempre associato alla figura del grande servitore dello Stato ucciso dalla mafia. Non avevo mai visto questo ufficiale perdere la calma o affrontare anche i fatti più drammatici senza concedersi un colpo di coda finale fatto di una battuta, quasi sempre autoironica. Conosceva e raccontava le più belle barzellette sui carabinieri e nella sua versione non ne faceva protagonisti i soliti appuntati, ma sempre ufficiali come lui. Il concetto era: se me la prendo con i sottoposti sono un vigliacco, se me la prendo con me stesso faccio del vero umorismo. Naturalmente il risultato era che chi lo stava a sentire realizzava che la figura del carabiniere tonto delle barzellette, che fosse un ufficiale, un sottufficiale o un carabiniere di primo pelo, è soltanto un logoro luogo comune e che i carabinieri sono tutt’altro che tonti. Inoltre era un uomo capace di straordinarie analisi del territorio: non soltanto sul piano criminologico ma anche sociale e storico. Era qui da poco tempo, sapeva che entro breve se ne sarebbe andato ma conosceva la Sardegna come se ci fosse nato e vissuto e le avesse anche dedicato una tesi di Antropologia Culturale. I suoi uomini lo rispettavano, anche se non era uno che si abbandonava a pacche sulle spalle. Faceva il suo dovere e con il suo sorriso determinato pretendeva che tutti lo facessero. Quel pomeriggio di mezzo agosto lo cercai dopo che un cronista mi aveva riferito le prime confuse notizie: “Qualcosa di tremendo vicino a Ozieri, ancora non si sa, si parla di morti, forse anche carabinieri”. Feci il numero del suo cellulare, non rispondeva. Tentai senza speranza di chiamarlo al diretto della sua stanza, pensando che, se davvero era accaduto qualcosa di grave, di certo lui non fosse in caserma. Invece udii staccarsi la cornetta del telefono. Poi silenzio. -Pronto, pronto!- urlai. Dopo qualche secondo riconobbi la sua voce, irrealmente calma -Ah, è lei, Filigheddu. -Che cos’è successo? -Cos’è successo? Che i miei uomini sono morti. Ecco che cos’è successo. Stavano facendo il loro dovere e li hanno ammazzati. Ecco che cos’è successo! -Dove, dove esattamente?- chiesi cercando di mantenere la freddezza necessaria in simili circostanze, quando sei costretto comunque a fare il tuo lavoro. -E’ successo a… Poi la voce gl si spezzò e chiuse il telefono. Quella volta non aveva voglia di fare battute. Lo immaginai nel suo ufficio, con gli occhi sbarrati, dopo avere appena ricevuto la notizia. E io con la mia telefonata avevo probabilmente interrotto quel momento fugace di smarrito dolore. Corsi con i miei colleghi verso la piana di Chilivani e alla fine non fu difficile trovare il luogo, anche senza troppe indicazioni. Era proprio sul ciglio della strada, come sapete. Sulla scena, si aggirava lui, l’ufficiale, arrivato prima di noi. Era calmo, freddo, osservava, chiedeva particolari, dava ordini. Mi avvicinai e mi salutò cortesemente, come se non ci vedessimo o ci sentissimo da molto tempo. Il colloquio di poco prima era cancellato. Messaggio ricevuto. Aveva ripreso il suo solito atteggiamento e guidava le prime difficili indagini con la determinazione e l’abilità consuete. E fece una cosa che mi fece capire una volta per tutte come i carabinieri in genere siano, sì, uomini come noi, con le stesse emozioni, ma uomini straordinari. C’era il cadavere di uno della banda, con ancora le manette che Carru e Frau avevano messo ai polsi del criminale prima che tutti morissero. C’erano tanti carabinieri, anche poliziotti. Ogni tanto coglievi, sempre accompagnato dal silenzio, qualche sguardo di disprezzo, di odio, verso quel cadavere. E ogni tanto qualcuno piangeva. Tutto comprensibile, giustificabile, figuriamoci, con quello che era successo, con la cappa plumbea del dramma che pesava su quel pomeriggio d’agosto, con i parenti dei carabinieri morti che avevano appena saputo e facevano squillare i cellulari dei colleghi che erano lì e sentivi le urla che scappavano dai telefonini -Ma è vero? Dio mio! Ma è vero?
In questa situazione l’ufficiale si collocò accanto al corpo del bandito e torreggiando come un gigante sul cadavere, senza urlare ma scandendo bene ogni parola, disse ai suoi che gli si erano radunati intorno -Ragazzi, siamo carabinieri. Massima calma. Ora dobbiamo prendere i complici di questo povero morto, poi se resta tempo piangeremo. Capito? “Povero morto”, come ogni morto. Il messaggio di quella superiore civiltà richiesta ai carabinieri era chiaro. Ma anche l’altro, “prendiamo i suoi complici” non era da meno. La banda, pericolosa e determinata, fu individuata e sgominata in pochi giorni.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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