Sabato siamo andati al centro commerciale e mia moglie si è subito infilata in un negozio di abbigliamento. Io, come al solito, stavo sulla porta, un po’ dentro e un po’ fuori, come Inzaghi sulla linea del fuorigioco. Sono stato avvicinato da una delle commesse. Era vestita come un’adolescente, ma certamente aveva qualche anno più di me. Mi ha parlato garbatamente, ma col piglio di una abituata a comandare. Forse era la direttrice. “Le dispiace se le chiedo di stare dentro e di non fare avanti e indietro sulla soglia?” Era imbarazzata. Ricordando di avere ricevuto la stessa richiesta in altri negozi, ho chiesto informazioni. Lei, con molta calma e una punta di rabbia nella scelta delle parole, me lo ha spiegato. All’ingresso di questo punto vendita, come di tutti gli altri della stessa catena, da anni è stato installato un rilevatore: conta le persone che entrano. Però il rilevatore è stupido, perché se una singola persona entra ed esce dieci volte in pochi minuti, lui conteggia dieci persone. Alle commesse del punto vendita che quel numero non venga falsato interessa parecchio. Perché il management chiede vendite proporzionali al numero delle persone che il rilevatore censisce. Non so quale sia questa proporzione, ma mettiamo che alle commesse si richieda un capo venduto per ogni dieci persone entrate nel negozio. In teoria, alla fine di quel mese, alle venditrici potrebbe essere imputato di non avermi venduto nulla, visto che con quell’ondeggiare dentro-fuori io, singolo individuo, sono stato conteggiato come dieci persone diverse. Io invece mi affacciavo solo per capire se c’era speranza di vedere uscire mia moglie. “Quando, specie nel fine settimana, entrano famiglie numerose o compagnie di amici solo per curiosare – mi ha confessato la direttrice – sappiamo che dai piani alti ci faranno storie, perché secondo loro quella proporzione tra visite e venduto dovrebbe sempre essere rispettata”. Eppure non sono le commesse che decidono i prodotti da vendere, le politiche di marketing, la scelta degli stilisti cui affidare le collezioni, neppure come i capi vadano esposti è una loro competenza.
Questa logica del numero non distingue tra persona e persona, non analizza giornate e momenti, si limita a prendere atto della quantità e a considerare infallibile l’equazione tot visite uguale tot incassi. Gli addetti alla vendita sono i custodi di questa formula, diventano i capri espiatori se essa non viene rispettata. Una volta, un collega che lavora per un’azienda pubblica mi spiegò che la dirigenza pone loro degli obbiettivi precisi all’inizio di ogni mese: devi vendere tanti di questi articoli e tanti di questi altri, sennò sono guai. Io gli domandai: “Ma come fate ad impegnarvi ad ottenere risultati che magari potrete anche raggiungere, ma che non potete seriamente promettere?”. Non seppe che rispondermi, concluse dicendo che loro avevano il dovere di provarci e basta. Siamo numeri e dobbiamo produrre numeri, il resto conta poco. Dicono che funzioni così tutto il capitalismo e a questa realtà non possa sfuggire neppure la più piccola bottega. Avrà ancora un senso tutto questo?
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo e-book "Cosa conta".
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