La faccenda dello stabile occupato da centinaia di abusivi a Roma, con tutto il seguito di polemiche per il taglio e il riallaccio della corrente, mi ha fatto tornare alla memoria un episodio simile che avevo raccontato da cronista, una quindicina d’anni fa. In Sardegna, a Olbia. Gli occupanti abusivi dello stabile erano tutti immigrati, ma sardi. Giunti a Olbia da altre terre dell’Isola, alla ricerca della fortuna che aveva il colore trasparente del mare della Costa Smeralda. Erano i primissimi, freddi giorni del 2002. Il 3 gennaio, se non ricordo male. Una donna si era arrampicata sul cornicione del vecchio ospizio abbandonato, nel quartiere Poltu Cuadu, minacciando di lasciarsi cadere nel vuoto, se non le avessero trovato un alloggio dignitoso. Era una ballerina ormai avanti con gli anni, cui la vita non aveva sorriso. In breve, sotto di lei si materializzò una folla che assisteva agli equilibrismi della donna, in bilico sulla striscia di cemento. Nella folla c’erano anche giornalisti e fotografi. Non ero tra loro, poiché quel giorno avevo il mio giorno libero ed ero lontano dalla redazione. E così non fui tra i testimoni che videro quel corpo precipitare a terra, da una ventina di metri d’altezza. Non fui tra coloro che videro la morte in diretta, avvenuta in circostanze mai del tutto chiarite, e il vano tentativo di un poliziotto di afferrarla, un istante prima della caduta. Il giorno dopo, riuscii ad intervistare il compagno, accolto in una comunità per poveri gestita da volontari. Il giorno dopo ancora il fotografo di redazione, Antonio Satta, mi suggerì di ricostruire la storia del palazzo da cui la donna si era gettata. Mi portò in un chiassoso bar di pescatori di via Regina Elena e mi presentò un suo amico, uno che in quel palazzo ci aveva vissuto. Beveva vermentino al bancone e mi chiese di fargli compagnia. Ci mettemmo a sedere ed iniziammo a parlare. Il nome non me lo ricordo, ma mi pare fosse originario di Bitti. Antonio gli spiegò il motivo del nostro interesse e lui accettò di buon grado di raccontare.
Il palazzo era stato costruito per conto del Comune di Olbia negli anni settanta. Doveva essere un ospizio, il ritiro dei vecchi in una città che correva a vertiginosi ritmi di crescita demografica e non aveva molto tempo per occuparsi della terza età. Lo avevano collocato a Poltu Cuadu, che allora passava per quartiere del disagio. In quegli stessi anni, a poche centinaia di metri, nasceva l’aeroporto.
Olbia aveva, nei primi anni sessanta, poco più di ventimila abitanti. Ma proprio in quei tempi la spinta propulsiva della Costa Smeralda e il tumultuoso sviluppo economico della Gallura fecero sì che la comunità crescesse ad una velocità incontrollabile: c’era lavoro per tutti e tutti avevano bisogno di lavorare, accorrendo da zone depresse della Sardegna dove la sopravvivenza bisognava inventarsela. Quando si parla di abusivismo edilizio a Olbia, spesso si liquida la questione riducendola agli appetiti voraci dei costruttori. Invece quell’abusivismo è stato, per buona parte, il risultato di quell’ingovernabile sviluppo. I 17 quartieri abusivi sui 21 totali furono figli di quel tempo di speranza, di quella fame che non può aspettare il tempo di una licenza edilizia.
E così anche il cantiere del vecchio ospizio divenne una specie di casa popolare. Approfittando di uno stop ai lavori tante famiglie lo occuparono, trasformando lo scheletro di quell’edificio grezzo in tanti appartamenti. Non c’era energia elettrica né acqua corrente. Il testimone, al bar, mi raccontò dell’acquisto condiviso del gruppo elettrogeno: tutti i “condomini” si quotarono e racimolarono la somma necessaria per installate il generatore, collegato poi alla buona, fili volanti, con gli alloggi. Il gasolio per alimentarlo lo si comprava a turno, una settimana per ogni inquiilino. Si dotarono anche di una cisterna per l’acqua e ognuno finì i lavori nel proprio appartamento, per renderlo abitabile. Andarono avanti così per anni, finché gli occupanti non trovarono le risorse per stabilirsi in case di proprietà Per tutti quegli anni furono abusivi. Ma non avevano altro posto dove andare e chi avrebbe dovuto intervenire contro quella clandestinità, politici e funzionari, si voltò dall’altra parte, in qualche caso favorendo quelle occupazioni. Perché si aveva rispetto della povertà e la dignità non si negava a nessuno, anche a costo di qualche omissione. Perché l’Olbia di quei tempi era una massa immensa di sardi in viaggio avventuroso e rocambolesco verso la fortuna. Tutti si sentivano coinvolti e tutti avevano ragione di coltivare l’accoglienza. Altri tempi.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo e-book "Cosa conta".
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