Luchino Chessa è il figlio di Ugo Chessa, il comandante del traghetto Moby Prince. Ho Luchino tra i contatti Facebook e, pur non avendo mai interloquito direttamente con lui, ne ammiro la tenacia nel perseguire la verità sulla strage, anche per riabilitare la memoria del padre infangata dall’ignobile chiacchiericcio alimentato da chi alla verità ben poco teneva. Luchino ha dichiarato di aver riconosciuto il cadavere carbonizzato del padre da un orologio, l’unico elemento che lo rendeva individuabile.
Nei giorni scorsi, i familiari dei 65 uomini dell’equipaggio periti nella sciagura hanno chiesto al Capo dello Stato che la memoria dei loro morto venga onorata con una medaglia al valor civile. Credo sia una richiesta legittima e che doverosa sia una risposta da parte delle Istituzioni interessate. Per una ragione, in particolare.
Per anni quei morti sul lavoro sono stati calunniati con l’accusa di essere stati responsabili della strage per superficialità e distrazione: quel 10 aprile 1991 si giocava la semifinale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Barcellona e alcuni organi di stampa, tra cui il Tg1, sostennero che l’equipaggio fosse davanti alla televisione, anziché occuparsi delle manovre di uscita dal porto di Livorno.
Una falsità, smentita da tutti gli accertamenti processuali: il comandante Chessa non era appassionato di calcio e in plancia comando non c’era una televisione. Eppure quella menzogna, come spesso accade, è stata per tanto tempo una comoda spiegazione per quel disastro. Mi chiedo, 25 anni dopo, quali prove o indizi potessero portare certa stampa a questa conclusione, poche ore dopo l’incidente, dal momento che tra le persone a bordo della Moby Prince ne sopravvisse solo una e quell’unico superstite non fu mai in grado di fornire una testimonianza utile alle indagini. Bisogna sempre diffidare delle congetture della stampa dopo un importante fatto di cronaca, perché la fretta di spiegare quasi sempre trascina lontano dalla verità.
E comunque, se la battuta non suonasse sinistra, si potrebbe dire che già da queste affrettate ricostruzioni si annusava puzza di bruciato sulla reale volontà di spiegare esattamente la dinamica dei fatti. Un medaglia al valor civile per quei 65 morti sarebbe un gesto altamente simbolico per onorare la verità. E sottolineare il sacrificio di coloro che, dopo aver perso la vita sul lavoro, sono stati offesi anche da morti.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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