Bisogna avere il coraggio di raccontare. Trovare tra le intersezioni delle storie il verso giusto, il vero piglio narrativo che porta a dipingere la realtà. Questo ha provato a fare Giuseppe Ferrara con i suoi film e questo è quello che ci resta: il suo impegno vero, reale, duro; quel suo vizio terribile di provare a scardinare i depistaggi, le false ricostruzioni, gli enormi muri di gomma che in questo paese esistono da sempre. Il film su Aldo Moro, per esempio, è la ricerca quasi ossessiva di una verità che ancora oggi, a distanza di oltre 38 anni non è stata rivelata. Ferrara aveva deciso che Moro dovesse avere il volto dell’attore interprete per eccellenza: quel Gian Maria Volontè che già nel film “Todo Modo” (per la regia di Elio Petri) aveva impersonato, in qualche maniera lo statista democristiano. Il film rappresenta il punto più alto della produzione di Ferrara. Un film duro, essenziale, costruito sugli atti dei vari processi, una vera ricostruzione di quelle, per capirci, che non si fanno più. Ferrara era abituato a cimentarsi in documentari-verità. Lo aveva fatto con Pinelli, l’anarchico volato via dalla questura di Milano dopo la strage di Piazza Fontana, aveva raccontato il colpo di stato in Cile, l’omicidio Kennedy. Si era addentrato nello studio della figura di Panagulis, l’eroe nazionale greco raccontato nel libro “Un uomo” da Oriana Fallaci. Il regista fiorentino (era nato a Castelfiorentino il 15 luglio 1932) si è poi addentrato nei tunnel oscuri delle vicende italiane, nell’analisi della realtà ridisegnata dai servizi segreti deviati. Girò il film “I banchieri di Dio” sul caso Calvi, uno dei fatti più controversi della nostra repubblica. In quel film il regista ci vedeva benissimo Gian Maria Volontè. Prutroppo la morte precoce dell’attore lo portò a scegliere un bravissimo e ispirato Omero Antoniutti (il genitore di Gavino Ledda nel Padre Padrone dei fratelli Taviani). Girò anche un film su Giovanni Falcone e uno degli ultimi lavori fu rivolto alla figura di Guido Rossa, il sindacalista che osò sfidare, da solo, le brigate rosse: “Guido che sfidò le brigate rosse” è un bellissimo film del 2007 e racconta la follia di quei ragazzi accecati dall’odio e da una storia letta malissimo che portò allo scontro generazionale e ideologico che ebbe molti strascichi nel tempo. Guido Rossa fu barbaramente ucciso dalle brigate rosse il 24 febbraio 1979. Fu un omicidio bastardo che segnò, probabilmentente, l’inizio della fine di quella terribile follia che è stato il terrorismo. Giuseppe Ferrara ci lascia queste storie. Poca fantasia e poca magia holliwoodiana. Nei suoi film c’è tutto il tempo per riflettere, per provare ad analizzare i fatti narrati con rigore scenico, con passione vera, con quella che al giorno d’oggi sembra mancare in più campi: la serietà. Quella che, insieme a lui, aveva Guido Rossa, un eroe, uno che amava il suo lavoro. Un operaio. Un uomo dello Stato.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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