E’ morto Giulio Angioni, una delle personalità del mondo della cultura sarda più importanti dell’ultimo mezzo secolo. Il mio destino formativo di antropologo è stato “pesantamente” condizionato dalla sua figura di autore di numerose opere scientifiche, in particolare sulla Sardegna. Per contro, non ho “quasi” mai conosciuto di persona Giulio Angioni, se non per quelle fugaci presentazioni che capitano a distanza di anni dove ci si stringe la mano, si dice il proprio nome e si tira dritto. Però l’ultima volta, tre anni fa alla mostra del libro di Macomer, mi ha fatto piacere incontrarlo e presentarmi, perché la risposta è stata, come una sorta di automatismo, il titolo del libro che avevo scritto. Si è materializzata così, quella volta, la connessione tra l’icona intellettuale, il libro sullo scaffale che hai letto in tante occasioni, con il riconoscimento della propria soggettività. Si ritorna un po’ bambini di fronte al gigante della cultura che ti riconosce. É la pacca sulla spalla per il buon voto a scuola. Così come, per uno strano scherzo del destino incompiuto, mi è capitato, pochi mesi fa, di essere indicato per presentare, io, il nuovo romanzo del grande antropologo in una rassegna letteraria a Sedilo. Sono fili molto tenui, molto leggeri, che si intrecciano. Ricordo che tempo fa un amico mi chiese da chi mi sarebbe piaciuto esser presentato, e avevo risposto così, Angioni. Il destino aveva, però, in quel frangente, attorcigliato i fili al contrario, al punto che ero io, cioè un quasi nessuno, che dovevo presentare il libro a lui. Quel filo tenue, legato ad un bellissimo romanzo, l’ultimo di Angioni, “Sulla faccia della Terra”, si spezzò poco dopo, causa motivi di salute, che oggi appaiono in tutta la loro drammatica realtà. Quel libro ce l’ho ancora in testa: narrato sulle ali di uno stile inconfondibile, la vicenda dei reietti, tanto diversi tra loro per età, sesso, cultura, lingua, provenienza, ceto sociale, rifugiati nell’isoletta in mezzo allo stagno di Cagliari, nel medioevo della lebbra, delle croci cristiane, dei mercenari e delle guerre tra città egemoni nel Mediterraneo, figurava come una parodia della tolleranza, della marginalità, dell’autogoverno improvvisato, della sopravvivenza, della sfida alla natura avara, dell’adattamento a quello che sembrava una sorta di rifugio circondato dalle acque ferme dello stagno, una placenta che donava il nutrimento e la protezione. La parodia della paura, ma di una paura salvifica: l’isoletta della lebbra veniva evitata per paura del contagio, e la sceneggiata dei finti appestati li proteggeva da un mondo terribile dominato dalla violenza, dalla brutalità, dalla guerra e dall’ira di Dio. Un’isola povera, abitata da figure improbabili e grottesche, ma felice. Angioni è stato un grande antropologo, riferimento per la cultura sarda, ma di caratura europea, per gli studi condotti su materie dell’antropologia tra le più disparate, tra cui spiccano gli studi sulla antropopoiesi, cioè su come la cultura, in particolare il linguaggio e la manualità, dalla nascita, “formino” gli esseri umani. Ma è stato, anche, l’unico intellettuale sardo del dopoguerra che ha riunito, in una unica persona, due tra più fervidi momenti della rappresentazione culturale dell’isola, anche se diversi tra loro. Infatti, Angioni, a ragione veduta, può essere considerato come il principale prosecutore della Scuola Antropologica di Cagliari, una delle più significative della storia italiana, avendo contato, come fondatori, quelli che vengono considerati come tra i massimi studiosi italiani della disciplina, De Martino e Cirese. Una scuola che aveva dato vita ad un movimento intellettuale, pilastro importante di un periodo storico sardo di grande fervore politico e culturale, negli anni compresi tra il ’50 e il ’70, con l’uscita di libri fondamentali per la cultura sarda come “La civiltà dei Sardi” di Lilliu, “La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico” di Pigliaru, “La Rivolta dell’Oggetto” di Pira. Lo stesso Angioni ricordava i dibattiti e i cenacoli che facevano da contorno a quel felice periodo culturale, che vedeva partecipare i massimi esponenti della cultura sarda dell’epoca di ogni disciplina umanistica. Negli anni ’80, invece, Angioni trova nella forma letteraria del romanzo una modalità di comunicazione consona alle sue corde. Sente il bisogno, dunque, di giungere ad una platea più ampia per esprimere i sentimenti legati ai mutamenti e ai processi sociali che investivano la sua terra. Il suo impegno nella letteratura ne fa, nuovamente, un caposcuola. Grazie alle doti narrative e ad uno stile delicatissimo, Angioni, insieme al magistrato sassarese Salvatore Mannuzzu, seguiti da Sergio Atzeni, inaugura quella che, da importanti critici nazionali, è stata definita come la “Nouvelle Vague”, della letteratura sarda. Un filone letterario, caratterizzato da accenti noir e anche gialli, tipici perciò della letteratura di massa, poi sfruttato da altri autori con successi di critica, di premi e di vendite notevoli, che hanno posto l’isola all’avanguardia della cultura letteraria del paese. Giulio Angioni ha dunque rappresentato un ponte tra la stagione dell’impegno culturale e politico, negli anni delle speranze autonomistiche e della rinascita, e quello dove la società “liquida” o “in polvere” ha provocato un disorientamento generale nella cultura, con personaggi letterari moderni che vagano, spesso, colti da angoscia e vuoti di memoria, senza una direzione precisa. Angioni, mi pare di poter dire, ha cercato di congiungere queste due fasi così distinte della vita culturale della nostra terra. Come se avesse voluto costruire un ponte, tra quella società, quella della ricostruzione e dei grandi scenari progettuali, così fattiva e propositiva, e quella di oggi, disincantata e alla ricerca di nuovi orizzonti, nuovi obbiettivi, nuove angolazioni da cui ripartire. Solo nei prossimi anni, credo, solo prossimamente sapremo, forse, se l’impresa al grande antropologo e scrittore sardo è, almeno in parte, riuscita.
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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