Mi è capitato di remare contro certi sentimenti dei lettori del mio giornale. Succedeva in tempi che per fortuna ho vissuto dall’inizio alla fine della mia carriera, quando potevi compiacere gusti meno alti per ottenere due o tre copie in più di venduto al massimo con un titolo un po’ da spirito di patata, ma oltre non si andava. Tempi in cui il populismo era una voce dei dizionari di storia, non una minaccia. E quindi se c’era da dire qualcosa di impopolare che aiutasse però la giusta lettura di un fatto, la si diceva senza pensarci sopra più di tanto.Accadde che un magistrato facesse qualcosa di inviso a molta gente, che tirasse fuori dal carcere un tale che c’era finito per un fatto che aveva davvero fatto incazzare l’opinione pubblica. Non voglio entrare nei particolari perché è inutile ricordare persone e fatti specifici, è un discorso di principi, ora. Basti soltanto sapere che ai funerali delle vittime di quel tale, io stesso, pur con tutto il fodero di pelliccia sullo stomaco che anni e annorum di cronaca mi avevano ispessito, ero pieno di sentimenti di odio più che di commozione.Arrivò la notizia che il magistrato gli aveva permesso di tornare a casa. Allora non c’erano i social e il giornale fu preso d’assalto da orde di indignati. Telefonate a milioni, stavamo per creare un numero apposito d’emergenza. E poi vagonate di lettere. Molti venivano di persona. La sede dell’organo di polizia che aveva materialmente eseguito l’arresto, venne assediato da un piccola folla, come se gli agenti fossero responsabili della decisione del magistrato.Corsi a Palazzo di Giustizia e non ebbi bisogno di rivolgere alcuna domanda a quel magistrato. Fu lui a chiedermi con un sorriso un po’ tirato-Ma secondo te io ho provato gusto a rimetterlo in libertà?-Penso di noChiarita ogni cosa sul piano dei sentimenti, che non ci voleva molto, mi ricordò le famose tre condizioni della detenzione in carcere dell’imputato. Il codice di procedura penale era stato riformato da poco ed era ancora quasi una novità il parlare di rischio concreto di reiterazione del reato, di pericolo di fuga e di possibile inquinamento delle prove. Nel caso in questione non c’era neppure l’ombra di una delle tre.Concluse– Se io un giorno mi dovessi accorgere che ho difficoltà o peggio paura di fare il mio dovere, mi dimetterei immediatamente dalla magistratura.-Posso scriverlo?-No, se lo fai tradisci una confidenza amichevole. Non voglio giustificarmi dicendo che in fondo al cuore quel tale lo vorrei vedere anch’io in galera. Sarebbe un equivoco, quasi che io sia una vittima della legge. E non è così, tra l’altro, perché io non sono felice di vedere alcuno in galera. L’unica cosa che ti chiedo è di spiegare bene gli articoli di legge che ho applicato e l’unica dichiarazione che posso farti è banale ma vera: “Ho la serenità del dovere compiuto”.Quando lo scrissi, con molto risalto, commentai che il disprezzo della legge e il clima da forca erano infinitamente più dannosi persino del delitto commesso da quel tale che ora si trovava a casa sua.La carta stampata ancora funzionava per fare riflettere i lettori. Le proteste cessarono.Ora penso alla sentenza d’appello sul femminicidio di Riccione e a come le urla da strada siano state condivise anche da una fascia di opinione pubblica solitamente attenta a non cadere nelle tentazioni forcaiole del perimetro culturale populista, quelle che spengono il tuo comprensibile risentimento per un delitto odioso in uno spruzzo di acqua nera di fuliggine, come i fabbri che raffreddavano il ferro rovente. Io penso che questo vapore di rancore non farà altro che ostacolare la vera lotta alla predominanza e violenza maschile: una battaglia progressista non può essere condotta con lo strumento degli insulti, solitamente usato da chi il mondo lo vuole portare indietro.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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