Giro d’Italia 2015
Quando le guardie forestali vanno a liberare il cinghiale preso al cappio con il cavo d’acciaio, sanno che devono fare molta attenzione, perché l’animale non distingue tra l’essere umano che lo vuole uccidere e quello che lo vuole aiutare, e si può rivoltare contro. Uno degli effetti più drammatici della colonizzazione culturale, secondo me, tipica degli ambiti post-coloniali, è questa che definirei, appunto, come la sindrome del cinghiale preso al laccio. Questa sindrome si è manifestata bene in occasione del Giro d’Italia in Sardegna. Quella che è, nei fatti, una semplice festa popolare, un investimento nel settore turistico, fondamentale per riconvertire una economia disastrata, peraltro con importanti risvolti sociali nel campo dello sport, della salute, dell’ecologia, è stata interpretata come l’invasione perniciosa di non si sa bene che cosa, ma che comunque, magari perché ricordava l’Italia nel nome, era da respingere in via pregiudiziale come “coloniale”. In Sardegna questi fatti sociali sono sovente interpretati, specie dall’intellighenzia, con la chiave dell’analisi identitaria. Tutto viene ricondotto ad una presunta costruzione dell’identità o ad una deriva identitaria, oppure come subalternità alla cultura egemone, come ricerca di omologazione. In questo caso, l’accettazione di una prestigiosa manifestazione ciclistica, ambita in tutta Italia e persino in tutta Europa, seguita in mondovisione da 194 paesi del mondo, con una stima di oltre 800 milioni di telespettatori, in Sardegna no, viene vista da una parte del mondo culturale, come l’accettazione di una cultura che impone il suo punto di vista, come una forma di colonialismo. Un normale mezzo di promozione turistica, considerato dagli esperti particolarmente efficace, peraltro ideale per la Sardegna, ed una passione per uno sport molto popolare, finiscono per essere declinati in un ambito antropologico che, solo in via del tutto residuale, può avere delle implicazioni. Manifestazioni comuni a tutte le località interessate dal Giro, come una banale sfilata di persone in costume, viene interpretata, solo in Sardegna, come folklore da riserva indiana. Trascurando le vicende conflittuali con i loro risvolti “identitari” relativi alla storiografia, specie antica dell’isola, questo riduzionismo identitario, persino ossessivo, diventa totalizzante per interpretare cose che, in realtà, sono comuni a tutto il mondo, attinenti ad un mercato globale e ad una cultura sempre più transazionale. Fenomeni come il “pranzo dei pastori”, ad esempio, finiscono per diventare il caso di scuola, sotto la lente della “costruzione dell’identità” o della “sudditanza culturale”. Quando invece altro non è che una modalità tipica del mercato turistico di offrire un prodotto “rurale” e genuino al cittadino bisognoso di rigenerarsi e svagarsi con una scampagnata in mezzo alla natura, mangiando bene in un contesto socializzante. La critica all’identità sarda, destrutturata di ogni fondamento autentico, e per contro la visione della subalternità alla cultura egemone, opposizioni ben descritte da Placido Cherchi come “vergogna di sé” e “etnocentrismo difensivo”, tuttavia, hanno come origine la stessa matrice storica, una ferita mai rimarginata del popolo sardo. Lo si è visto bene nel caso del servizio del TG1 che, in occasione del passaggio del Giro a Orune, ha iniziato ricordando i pallettoni nei cartelli e il recente fatto di sangue dell’omicidio Monni, sollevando una montagna di polemiche tra le due opposizioni. Il solito stereotipo, frutto di una cultura giornalistica che ha la sua radice nell’inchiesta neorealista del dopoguerra, e che da allora ha faticato a trovare nuovi strumenti cognitivi della realtà. Tuttavia, rispetto alla visione dei fatti di cronaca dell’interno come “modesta cultura pastorale”, nella definizione altezzosa e razzista di Giorgio Bocca di un po’ di tempo fa, il servizio, pur criticabile per la banalità della semplificazione iniziale, ha declinato, mi sembra, in forme si paternalistiche, ma anche, almeno in parte, relativiste. Del resto, se l’autore del servizio fosse stato in mala fede, avrebbe potuto pubblicare gli insulti e le minacce che gli sono arrivati per mostrare di avere, tutto sommato, ragione. Tuttavia è chiaro che la cultura osservante, che proviene dalla città, giudica negativamente, da sempre, la campagna dei cafoni, dei villani e dei modi “inurbani”, in quanto territorio da sottoporre all’egemonia culturale ed economica. E’ la modalità persistente originaria di sfruttamento, poi ampliata su scala internazionale. Come dire, niente di nuovo, se non che tale visione di superiorità della cultura borghese nei confronti di quella tradizionale viene estesa, indebitamente, nel caso sardo, in un certo senso, a tutta l’isola. Si dirà, giustamente, che quegli stereotipi in fin dei conti provengono da fatti di cronaca reali. Tuttavia la manipolazione della realtà nasce nell’esatto momento in cui si seleziona un fatto tra i tanti, e lo si sottolinea, omettendo gli altri. Le cronache italiane traboccano di efferati delitti, recentemente ce ne sono stati a Sassari, per non parlare della strage di Tempio. Ma sono delitti “cittadini”. La smania di denaro, l’avidità, l’arrivismo che si cela dietro tanti delitti “borghesi”, vengono archiviati in quanto casuali, o comunque effetti collaterali di una modernità irrinunciabile. La cultura egemone, infatti, caratterizza come “tipici” i fatti negativi della cultura egemonizzata, e casuali quelli della cultura propria. É una modalità che si riscontra storicamente anche nel modo in cui la storia viene ricostruita, o nella propaganda. Nel caso del ciclismo, e in prospettiva cicloturistica, perché non dire, ad esempio, che si, nelle zone interne della Sardegna permangono sacche culturali delinquenziali, ma anche che le statistiche, da diversi anni, mettono in evidenzia come Nuoro e l’Ogliastra siano le province con il minor numero di reati in Italia, paese che, sempre secondo le statistiche, è già piuttosto sicuro. In pratica la Sardegna interna, storicamente considerata come “delinquenziale”, è invece una delle zone del pianeta più tranquilla e sicura. Nessuna rapina in banca, scippi, borseggi e furti in appartamento quasi inesistenti, corruzione al lumicino, e così via. L’ideale per praticare il cicloturismo, se unito, poi, alla scarsità del traffico, alla bellezza dei panorami, alla storia e alla cultura, alle prerogative naturalistiche e archeologiche, alle strutture agrituristiche e al buon cibo. Ma sulle manipolazioni egemoniche dell’informazione c’è tanta letteratura socio-antropologica, alla quale rimando. Resta la sensazione, tuttavia, in questa circostanza, di essere rimasti impigliati sull’ostacolo, piuttosto che passare oltre. Di alimentare, come sardi, con il nostro stesso soffermarci in diatribe identitarie, in vittimismo, in retoriche xenofobe, quella stessa immagine che l’egemonia culturale ci pone davanti allo specchio, fino ad assorbirla inconsciamente. Non che non occorra una seria riflessione sulla colonizzazione della Sardegna, come esito del rapporto svantaggioso tra centro e periferia. Da anni sono impegnato in queste analisi, e ho sempre sostenuto che in Sardegna si ravvisano della analogie tipiche con le colonie vere e proprie. Ma occorre sempre distinguere bene il bracconiere dalla guardia forestale: gli ultimi campionati del mondo di ciclismo si sono svolti negli Usa e nel Qatar, che non sono propriamente delle colonie. Quindi, lasciamo stare il ciclismo, che non c’entra nulla con tutto questo. Quello che invece mi preme dire, che è anche il senso di questa breve riflessione, è che, secondo me, occorre liberarsi da questa ossessione dicotomica dell’identità, e da questa sindrome del cinghiale preso al laccio. Vivere la propria identità di sardi, insomma, liberamente e senza complessi. Non c’è nulla di male nella visione delle migliaia di bandiere sarde che hanno sventolato senza acrimonia, ma semplicemente come manifestazione pura di appartenenza gioiosa ad una terra, non c’è nulla di male nel sentirsi onorati e orgogliosi delle parole meravigliate di tutti, giornalisti, ciclisti, persone del seguito, per la bellezza e i meravigliosi paesaggi dell’isola, e di ospitare una importante manifestazione sportiva. Ecco, penso che dietro lo specchio di una cultura egemonica razzista che ci dipinge come torvi e cupi, armati di fucile a pallettoni e di coltello, sempre pronti a vendicarci col sangue, ci sia un popolo onesto ed accogliente che ha solo bisogno di qualche bonifica nelle aree inquinate e di posti di lavoro per i giovani, ovvero di una nuova ecologia e di una nuova economia, sfruttando al meglio le notevoli prerogative territoriali e il proprio capitale umano. La Sardegna, per fare pace con la propria intima identità e con il mondo, ha solo bisogno di una prospettiva per i suoi figli. La Sardegna, per offrire una prospettiva ai suoi figli, l’ultima cosa che deve temere è il Giro d’Italia e il pranzo con i pastori.
foto tratta dal sito CM
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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