Seduti in poltrona davanti alle immagini tv di un disastro molti di voi hanno riso del giornalista che chiedeva a uno degli scampati: “Ma lei che cosa ha provato?”. Avete commentato la domanda con il vostro vicino di poltrona, tralasciando in questa gara di indignazione di sentire la risposta o per qualche attimo persino di guardare le immagini di morte che quel giornalista continuava a mandare in onda.Ma sapete che cosa c’è dietro quella domanda? C’è prima di tutto un pianto doloroso, lacrime brucianti che il giornalista deve inghiottire, tenere a freno. Non può permettersi di soffrire, di condividere il lamento mentre lo racconta. Se è bravo, deve dare l’impressione di farlo, ma in realtà deve essere freddo, razionale, quasi cinico, districarsi tra i soccorritori che lo vedono come un intralcio, che in quel momento convulso, tra urla e sangue, non possono capire l’enorme utilità del suo lavoro, quanto sia importante che tutti sappiano nei particolari che cosa sia avvenuto, e alle volte lo guardano come fosse uno sciacallo che fruga tra le rovine. Voi non sapete quanto sia difficile integrarsi con un microfono, una macchina fotografica o con un taccuino e una penna nella scena di una disgrazia; che cosa significhi, a esempio – e dei tanti esempi personali racconto soltanto il primo che ora mi salta in mente – essere scoperto dal personale di soccorso e dalla polizia a bordo di un aereo senza più carrello che si era appena rovesciato a bordo della pista in un atterraggio di emergenza. Non c’erano morti, quella volta, solo feriti leggeri. Ma immaginate la tensione. Ero riuscito a salire a bordo, nella confusione di ambulanze e auto dei vigili del fuoco, e avevo fotografato – ma soprattutto fissato nella memoria per il mio articolo – l’interno della cabina passeggeri con i bagagli abbandonati e le macchie di vomito sul pavimento. Tutto, nelle tracce di quello sbarco disperato, spiegava quale fosse stato il terrore di quelle persone.Quando si accorsero che ero un giornalista e non un soccorritore, mi cacciarono via con disprezzo. E lo ricordo ancora con rabbia e dispiacere insieme a mille altri episodi simili. Il lavoro dei giornalisti è anche questo. E il risultato di questo lavoro è ciò che vi permette di vivere in un mondo più civile, che vi fa tenere sotto controllo ciò che succede di brutto e ciò che quelli che voi pagate, votate, delegate, quelli ai quali vi affidate fanno o non fanno per rimediarvi e per evitare che succeda ancora. Un giornalista non può piangere mentre lavora. Altrimenti è meglio che cambi mestiere. Condividere le emozioni gli è interdetto. Se si emoziona perde il controllo del suo difficile lavoro. Può piangere soltanto dopo, quando ha già montato il servizio o quando ha già scritto l’articolo e la notte torna a casa. E allora piange, ve lo assicuro. Piange perché ha visto gente soffrire e piange per essere stato trattato come una iena. Non ridete troppo, quindi, quando a qualcuno di noi scappa il fatidico, “Ma lei che cosa ha provato?”. Possono esserci momenti in cui proprio non sai che cosa chiedere. E poi, confessatelo, in fondo anche voi ve lo siete chiesti che cosa provasse quel poveretto mentre gli crollava addosso la sua casa o mentre l’aereo si avvicinava alla pista e lui non sapeva come sarebbe andata a finire. E’ umano identificarsi nel protagonista di un fatto drammatico e pensare a come noi avremmo affrontato quel momento. E un giornalista ha anche il compito di cercare risposte a questa umana domanda.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
Fratelle e sorelli d’Italia.
31 luglio 1979, in mezzo al mare nasce Andrea (di Francesco Giorgioni)
Temo le balle più dei cannoni (di Cosimo Filigheddu)
La musica che gira intorno all’Ucraina. (di Giampaolo Cassitta)
22 aprile 1945: nasce Demetrio Stratos: la voce dell’anima. (di Giampaolo Cassitta)
Ha vinto la musica (di Giampaolo Cassitta)
Sanremo non esiste (di Francesco Giorgioni)
Elisa o il duo Mamhood &Blanco? (di Giampaolo Cassitta)
Pacifisti e pacifinti (di Simone Floris)
Lo specchietto (di Salvatore Basile)
Da San Gavino a San Cristoforo, quando colonizzammo il Villaggio Verde. Ovvero il trasloco (di Sergio Carta)
Se riesco a buscare 5000 Lire ci vediamo allo Zoom, ovvero le pomeridiane in discoteca degli anni’80. (di Sergio Carta)
Papa Fazio (di Cosimo Filigheddu)
Inserisci il tuo indirizzo e-mail per iscriverti a questo blog, e ricevere via e-mail le notifiche di nuovi post.
Unisciti a 17.919 altri iscritti
Indirizzo e-mail
Iscriviti
sardegnablogger ©2014 created by XabyArt - graphic & web design