Leggo l’ennesima promessa condita da formale biasimo all’overdose di promesse e mi torna improvvisa in mente quella sera in cui, in un salottino del giornale, Giommaria Cherchi, filosofeggiando sulla categoria del disprezzo, mi confidò che lui disprezzava i politici che fanno promesse. Di quelle che non possono essere mantenute. Negli anni Novanta chiesi a Giommaria Cherchi di accettare l’onere di una rubrica settimanale di poesia sassarese e sarda. La prima conseguenza fu che passò al tu: con la massima naturalezza, superando con leggerezza e senza tante spiegazioni i numerosi anni di lei che avevano regolato i nostri rapporti. Durante i primi di questi anni erano i rapporti tra un ragazzino che vorticava insieme al magma della sinistra locale e un severo e coerente comunista ritenuto tra i più importanti uomini politici e intellettuali della Sardegna. Giusta presa di distanze, Cherchi non era un ipocrita che diceva che siccome alle manifestazioni camminavo sotto la falce e martello, potevo permettermi con lui ogni confidenza. Gli anni successivi furono quelli dei rapporti tra un uomo politico e un giornalista. Distanza ancora maggiore. Mi diede molto, in quegli anni: notizie, quando poteva, ma soprattutto lunghe chiacchierate nelle quali mi aiutava a interpretare il senso degli avvenimenti. Ma anche quella seconda fase di rapporti fu improntata al lei: sapeva benissimo che lo scopo del giornalista è quello di controllare l’operato di qualsiasi politico, anche di quello che in quel momento gli stava fornendo notizie e preziose analisi. Il tu arrivò con naturalezza quando gli chiesi di fare quella rubrica. Evidentemente, nonostante le tante e onorevoli responsabilità avute nella sua vita, si sentì talmente gratificato da quella piccola cosa da proporre un passettino di confidenza in più. In realtà il tu aprì i cassetti più nascosti delle sue riflessioni, quelli dove più che la politica custodiva la filosofia della politica. Era assolutamente gramsciano. L’attività politica per lui assumeva una fondamentale valenza pedagogica. Nella sua militanza politica e nell’attività amministrativa cristallina teneva stretta anche la sua anima di professore-educatore. Chi tradiva quel ruolo era degno soltanto di disprezzo. Dire falsità, per di più spessissimo patenti, secondo lui significava coltivare nel popolo un sentimento pericolosissimo. Gli chiesi -L’illusione? -Ma quale illusione, chi vuoi che creda a certe menzogne? Voglio dire la voglia inconscia di condividere quelle menzogne, di sentirsi complici di una truffa, di strizzare l’occhio ai furbi per fare parte di quell’accolta. Un politico non deve mai dire “io ti darò domani quello che vuoi” ma “io so quello che serve perché tu sia più felice nel rispetto della felicità di tutti: ho bisogno del tuo voto per cercare di migliorare la società”. Allora funzionava ancora. Sempre meno, già si prospettavano tempi brutti, ma funzionava.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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