Sto scrivendo poco. Troppe cose per la testa e poco tempo per seguire cronaca e attualità. Ma questa ve la voglio raccontare. Rientravo a casa stasera, saranno state le 18.30. A metà maggio, sul Mediterraneo centrale, la luce che prepara il tramonto si infila tra le cose e le impasta con una morbidezza che in altre ore non possiede. Giravo con la macchina attorno a certi palazzi degli anni Sessanta: edilizia popolare. Attorno, altre case e palazzi. In questa zona finisce il tessuto urbano continuo e comincia una periferia che dopo un po’ diventa campagna. Ma tra quei palazzi la campagna si è arresa da un pezzo. Avevo quasi superato l’ultimo di una fila di edifici, quando mi è apparso, in controluce, Gino.
Ha più di 80 anni. È un omone alto e pesante, gobbo per la fatica. È vedovo e segue come può un figlio più grande di me. Anche lui grande, grosso e sempre attaccato al padre. Una forza paurosa e l’indole di un bambino vivace e, se non fosse per i farmaci, troppo imprevedibile. Ogni tanto scappa e Gino si dispera finchè non lo trova. Gino è curvo, credo io, anche per la fatica della vita che gli è toccato di fare. Però quando l’ho visto in quel lampo di sole dietro il palazzo, Gino era solo. Il figlio, ho pensato, sarà a casa davanti alla TV o a leggere fumetti. Ma cosa ci fa Gino da solo, mi sono chiesto. Cioè, che ci fa qui, da solo? Ho stretto gli occhi e ho visto: era alle prese con una vite. Tenendo un occhio all’incrocio (pericoloso) e uno su Gino, mi sono accorto che stava curando una vite e che attorno a lui era pieno di foglie di vite. In controsole, escludendo un attimo la vista dei palazzi che lo incorniciavano, ho visto semplicemente un uomo alle prese con una vigna. Io sarò passato di là migliaia di volte, ma quelle viti non le avevo viste mai. Basse, come si tengono nei posti con troppo sole, e fitte, chè in 40 mq scarsi cosa ci vuoi coltivare se non ti stringi? Su un incrocio pericoloso e in mezzo a dei palazzi, poi. Eppure Gino era chinato sulle sue viti, nonostante la schiena gobba e quella vita stretta e ripida che gli è toccato di fare. L’ho guardato per un attimo, poi ho ripreso a seguire la strada. Cento metri più in là finisce quella periferia e ne inizia un’altra, dove la campagna ancora resiste a tratti sempre più densi e continui e ogni tanto si vedono orti, cavalli, oche, asini, mucche e cinghiali che pascolano di notte. Ma in mezzo a quel cemento c’è solo Gino, con le sue viti. Il sole lo prende come se intorno avesse grano, e forse il cemento neanche lo vede. Si è ritagliato un angolo di vigna, come un nascondiglio che tutti possono vedere, per respirare, io credo, tra una salita e l’altra, tra una curva e l’altra, tra una fuga di suo figlio e quello che sarà domani.
Credo che ora, ogni volta che passerò da lì, guarderò come va la vigna di Gino. Probabilmente troverò scuse per passarci anche a piedi. E a settembre gli darò la caccia e voglio vederlo mentre vendemmia. Non so perché, ma credo che sarà tutta uva bianca.
Nacqui dopopranzo, un martedì. Dovevo chiamarmi Sonia (non c’erano ecografi) o Mirko. Mi chiamo Luca. Dubito che, fossi femmina, mi chiamerei Sonia. A otto anni è successo qualcosa. Quando racconto dico sempre: “quando avevo otto anni”, come se prima fossi in letargo. Sono cresciuto in riva a mare, campagna e zona urbana. Sono un rivista. Ho studiato un po’ Filosofia, un po’ Paesaggio, un po’ Nuvole. Ho letto qualche libro, scritto e fatto qualche cazzata. Ora sto su Sardegnablogger. Appunto.
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