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Quando si superano i duecento chilometri di gara, nel ciclismo, diventa una lotta contro il naturale istinto di sopravvivenza. Si corre verso la morte.
Felice Gimondi passa professionista nel 1965, e arriva terzo al Giro d’Italia. Viene portato al Tour de France, giovanissimo, ma un po’ per caso, in sostituzione di un gregario infortunato. Il suo compito è di aiutare il capitano Adorni. Lui, Felice Gimondi, bergamasco figlio del popolo, aveva fatto di tutto per diventare un campione della bici, in tempi dove non era facile trascurare il lavoro per lo sport. Così si trova a correre il Tour, giovanissimo e neoprofessionista. E, tra lo stupore generale di tutti, vince, anzi stravinceil Tour, la gara a tappe più importante del mondo, davanti all’idolo di casa, Poulidor.
Poi l’anno dopo, vinse corse importantissime, come il Giro di Lombardia e la Parigi Roubaix. Per Felice Gimondi, predestinato da un talento assoluto, si prospettava una carriera sfolgorante, da dominatore del ciclismo dell’epoca.
Poi arrivò quello lì. Quello lì. Con ironia montanara, quello lì, come disse una volta il campione di Sedrina, altro non era che il più grande ciclista di tutti i tempi, cioè Eddy Merckx, altrimenti detto il cannibale.
Io non mi lascio andare, non ti voltare, sai che ci sarò.
La storia dei due ciclisti, qui, entra nella leggenda. Certamente Gimondi, senza Merckx, avrebbe vinto tanto, tanto di più. Ma vuoi mettere quei duelli?
La bellissima canzone di Enrico Ruggeri, immagino che racconti il campionato del mondo di Mendrisio, durissimo, tra le montagne svizzere, nel 1971.
Non mi avrai, non mi staccherò, guarda la ruota, io ci sarò.
In quel mondiale Merckx era all’apice della forma. Il più grande ciclista di tutti i tempi, era ormai il Cannibale. Il suo strapotere era assoluto, totale. Quel mondiale così duro, massacrante, non poteva lasciare spazio agli outsiders, che pure all’epoca erano dei giganti, dei campioni come Bitossi, come De Vlaeminck. Ma Merckx, quando era in giornata, e il percorso era duro, non lasciava scampo. Testa bassa e via, a tirare come un ossesso.
Quando la strada sale, non ti voltare, sai che ci sarò.
Ma quel giorno, per quanti sforzi potesse fare il Cannibale, e nonostante avesse ormai piegato la resistenza di tutti i grandi rivali dell’epoca, Gimondi restava lì, attaccato alle sue ruote. Fu uno dei grandi, epici duelli di quell’epoca d’oro e ineguagliata del ciclismo. I due arrivarono in volata, dove Merckx, molto più potente di Gimondi, vinse quel mondiale a braccia alzate. Se non fosse stato per “quello lì”, Gimondi avrebbe vinto quel mondiale senz’altro. Ma gli sportivi non avrebbero assistito a quell’epico duello. La storia dello sport, senza i suoi duelli, sarebbe più povera. Certo Joe Frazier, senza Muhammad Alì, avrebbe vinto più titoli, sarebbe stato campione del mondo più a lungo. Come se non bastasse, era l’epoca di George Foreman, il pugno più pesante della storia della boxe. Ma non sarebbe stato lo stesso, non sarebbe stata la stessa cosa, senza quei tre incontri in cui i due pugili diedero fondo a tutte le loro risorse, sfidando davvero la morte. Nell’ultimo incontro, quello che doveva decidere chi sarebbe stato, forse, il più forte pugile di tutti i tempi, i due rivali giunsero in parità, ma stremati, all’ultimo round. Frazier decise di non proseguire e Alì ammise che non sapeva come sarebbe andata a finire.
Uno dei più grandi nuotatori di tutti i tempi è stato certamente l’ungherese Laszlo Cseh. Anche lui, si è trovato, tuttavia, a competere con un signore di nome Micheal Phelps, e come se non bastasse, con un altro mostro sacro del nuoto, Ryan Lochte. Chissà, magari oggi noi parleremo del relativamente minuto nuotatore ungherese come uno dei più grandi di tutti i tempi. Invece è sconosciuto al grande popolo degli sportivi.
Sono casi limite, ovviamente, in cui uno strano segno del destino concentra, in un unico periodo, mostri sacri di quella disciplina. Nasce così il mito dell’eterno secondo. Ecco, Gimondi, se non fosse stato per quei mondiali del 1973, sarebbe entrato a buon diritto nella leggenda dell’eterno secondo, che fu, per uno strano scherzo del destino, il marchio di Poulidor. In quel mondiale di Barcellona, infatti, accadde un fatto straordinario.
In fuga si ritrovarono a giocarsi la vittoria, Ocana, idolo di casa, Gimondi, l’immancabile Cannibale che aveva fatto di tutto per staccare il suo principale rivale, ed una giovane promessa belga, il velocissimo Maertens, che per un altro scherzo del destino, di mondiali nel seguito della sua carriera ne vincerà ben due, beffando una volta Moser, e una volta Saronni. Ma il ruolo del giovane belga non poteva che essere, in quella volata finale, dopo la salita del Montjuic, di appoggio al suo grande capitano, Merckx. Per il cannibale, vincere quel mondiale, doveva essere un gioco da ragazzi, con rivali molto meno veloci di lui in volata, e con l’aiuto pure di un gregario.Le cose andarono diversamente. Maertens aveva il compito di “tirare” la volata al capitano, e così fece. Solo che prese il compito con troppa foga, e fece il buco, che Gimondi, furbescamente, pensò bene di non chiudere. Ocana, scalatore puro, era già fuori dai giochi, quando Gimondi iniziò all’improvviso la sua rimonta sul giovane belga. Merckx restò di sasso, dalla piega strana, inaspettata che quella volata aveva preso. Gimondi, meno esplosivo del rivale, ma molto accorto tatticamente, si buttò come un falco su Maertens che, malgrado lui, era in testa a quella gara, mentre il traguardo si avvicinava, e il capitano non arrivava, e lui non sapeva che fare. A quel punto, tirò dritto verso il traguardo, ma ormai stanco dalla volata lunga. Gimondi si trovò così spalla a spalla, letteralmente, con il giovane belga, in una sfida di gomitate al limite del regolamento, ma che alla fine vide vincitore Gimondi.
Gimondi aveva battuto Merckx in volata, una cosa da non credere.
Però era successo. Non fu la sola rivincita di Gimondi nei confronti dello strapotere del Cannibale, perché la carriera di Gimondi, iniziata prima del rivale, durò un po’ più a lungo, tanto che nel 1976 vinse il suo terzo Giro d’Italia, all’età di 34 anni.
Ora mi dicono di un malore nel mare di Sicilia, del vecchio campione di 76 anni, che se lo è portato via. Ma io non ci credo. Gimondi, per me, resta eterno, come un archetipo. E’ la rappresentazione della pazienza montanara e testarda, della goccia che scava nella roccia, inesorabile, della saggezza che si oppone alla forza bruta.
Come per Pietro Mennea, che per me è per l’eternità l’emblema dell’ostinazione assoluta, rappresentata dalla una delle più incredibili rimonte della storia dello sport, il “recupera recupera recupera e vince!” immortalato dalla voce del telecronista Paolo Rosi, così nella mia mente Gimondi è quel testa a testa, quella rimonta, quelle spallate con il giovane velocista belga mentre dietro, il cannibale, per una volta sconfitto, piega e scuote la testa.
Per sempre.
Ma non mi potrò voltare, non mi chiamare, non risponderò.
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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