Ciocche di capelli cadono come fiocchi di neve, sul telo di plastica verde bottiglia che mi avvolge. Ho lo sguardo basso e solo nell’ultimo attimo del volo le vedo atterrare sul telo, col buco al centro fatto apposta per infilarci il mio testolone. Precipitano mazzi di capelli sotto i colpi della macchinetta, pilotata da Angelo sulla boccia del mio cranio, e non posso far a meno di notare che il bianco aumenta, di volta in volta. Angelo intona Nomadi come una nenia, senza schiudere le labbra. E quel bianco dei capelli, sulla plastica verde, materializza davanti a me la sagoma di una moto e i tratti evanescenti di un sogno.
Nel 1987 avevo sedici anni, quanti ne bastavano per poter cavalcare una moto sportiva da 125 centimetri cubici. Erano anni per i quali provo una nostalgia che non so quanto sincera. Non so se sia il rammarico per il tempo passato, per gli entusiasmi facili, oppure se ad avvincermi fosse proprio quella raffigurazione facile del mondo: il panino al fast food, i ministri gaudenti, le Timberland, il Monclear, la cintura con la fibbia El Charro, i Camperos, la moto, il sintetizzatore nelle musiche pop, il disimpegno, l’ottimismo come programma politico, le spalline sulle giacche per sembrare più forti, gli slogan tormentone dei comici televisivi, gli spot pubblicitari, la felicità in vendita, la cafonaggine, le risate registrate, i Duran Duran, gli Spandau ballet.
Io avevo genitori con i piedi ben piantati per terra e di firmato non avevo mai nulla: per pudore neppure chiedevo, per quanto desiderassi anch’io stringermi in vita una cinta El Charro. La moto, però, la volevo sul serio. Lavorai una stagione per guadagnarmi una Honda Nsf usata, con telaio e motore in vista. Era bella, ispirava avventure e libertà. Ma quello era il tempo del desiderio obbligatorio e la moto che tutti i sedicenni volevano era la Gilera Kz. La Gilera Kz rappresentava quegli anni. Era più potente delle altre 125, andava più forte, appariva nelle pellicole spazzatura dove c’era sempre un figlio di papà che fiero la cavalcava e poi la parcheggiava davanti al locale di tendenza, al centro di Milano. Aveva una carenatura avvolgente tutta bianca. Al paese ce n’era una soltanto, quando passava ci fermavamo e le rendevamo omaggio in silenzio: il motore emetteva un rumore di lattine sbattute, ma per noi era un canto che avviava discussioni spontanee. Costava, se non ricordo male, 3 milioni e 650 mila lire. Io non potevo permettermela. Rimase un sogno, ma mai neutralizzato del tutto dal tempo: ogni tanto ripensavo alla Gilera Kz, anche da marito, anche da padre. Qualche settimana fa mi è venuta voglia di vedere se se ne trovasse qualcuna in vendita e sono andato a cercare su certi siti di moto usate. Mi sono apparse tante foto della Gilera Kz sui siti delle moto. E ci sono rimasto male. La Gilera Kz non mi piace più. Esteticamente l’ho trovata sproporzionata e pretenziosa. Me la ricordavo slanciata e sobria. Brutta come una ragazzina che vuole apparire donna. Non potevo credere di aver trovato attraente questo oggetto. E non riuscivo a capire come due ruote ed una sella, al tempo dei miei sedici anni, potessero sprigionare in me tanta vita e immaginazione. Ma la Gilera Kz non ne ha colpa, lei è rimasta quella che è sempre stata. Sono io che sono un altro, con un altro senso del gusto e della vita, sono io che la libertà la vedo in altre conquiste e non più in una moto. Però mi son sentito mancare quando ho sbattuto il muso contro quel ragazzo che voleva la Gilera Kz. Mi è sembrato di non riconoscerlo.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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