belly tummy of a pregnant woman on a white background
Quella mattina Gigi avrebbe fatto volentieri a meno di alzarsi. Stava così bene sotto il lenzuolo leggero che Michela gli aveva steso addosso prima di uscire dalla camera per proteggerlo dall’arietta frizzante di quel mattino di fine agosto. Stava così bene che, per niente al mondo, avrebbe voluto abbandonare il giaciglio, ma la sveglia trillò inesorabile per la seconda volta rammentandogli che tra un ora avrebbe dovuto attraversare i cancelli dello stabilimento per uscirne otto ore dopo. Ripercorse mentalmente la sua giornata e si fece forza. Si alzò. Cercò senza guardare le pantofole. Se le infilò ed uscì dalla camera stropicciandosi gli occhi. Quando arrivò in cucina si versò il caffè che Michela gli aveva fatto trovare pronto, come ogni mattina da quando, tre mesi prima, avevano iniziato a vivere insieme. Guardò la tazzina per una frazione di tempo che gli sembrò eterna. Come risvegliandosi da un torpore durato quanto la sua intera vita, ingurgitò il caffè bollente ed amaro. L’aveva sempre bevuto così: bollente ed amaro. Si rese conto di essere spossato e particolarmente indolente. Da quando aveva trovato lavoro non aveva mai provato una sensazione così. Si era sempre svegliato di buon grado iniziando a cantare una delle sue canzoni preferite: “Finché la barca va!” Quella mattina, invece, era uscito in silenzio dalla camera senza sollevare la persiana, come faceva sempre per controllare il tempo. Attribuì la scarsa voglia di andare al lavoro che si sentiva addosso alla notizia appresa il giorno prima dal ginecologo. Inconsciamente era preso dal desiderio di festeggiare, rimanendo con Michela tutto il giorno, a fare programmi e preparativi. Tra venti giorni avrebbe avuto tra i piedi una bella femminuccia. “E’ sana come un pesce” aveva concluso il medico, accomiatandosi sull’uscio dell’ambulatorio. “E la madre?” aveva chiesto lui. “In condizioni ottime, non si preoccupi!”. Avrebbero voluto sposarsi per far nascere Rosa, così avevano deciso di chiamarla appena seppero che sarebbe stata femmina, in una famiglia normale. Rinunciarono al matrimonio, ma non alla vita in comune, quando compresero di dover risparmiare sino all’ultima lira. Michela, cameriera in nero presso il rinomato ristorante “Trattoria Da Ziu Pistoccheddu”, era stata messa alla porta dal proprietario non appena rivelò di essere incinta e Gigi comprese che il proprio stipendio sarebbe stato a malapena sufficiente ad assicurare una vita dignitosa di sacrifici alla famiglia che si andava formando. Per questo avevano accettato, tutto sommato di buon grado, di andare a vivere presso la casa dei genitori di Michela, “troppo grande per due vecchi come noi”, aveva detto Zia Lillina per convincerli, “e poi ci farete compagnia, ché ne abbiamo bisogno, anziani come siamo!”. Gigi superò le perplessità iniziali grazie alla discrezione della suocera, che scompariva nel proprio orticello per giornate intere, e pensando che, in fondo, Michela in quelle condizioni, avrebbe potuto avere bisogno d’aiuto mentre lui era assente e sua madre era la persona più adatta anche per tenerle compagnia. Per provare a risvegliarsi da quello strano torpore Gigi fece una lunga doccia gelata. Tornò in cucina per finire di prepararsi. Mentre infilava la tuta da lavoro non riusciva a staccare gli occhi da Michela, che armeggiava con la scopa e con il secchio. “Riguardati, lascia stare – le disse con un sorriso dolce e triste – sistemerò tutto io stasera”. Ma dagli occhi di Gigi traspariva, oltre all’amore del prossimo padre, la preoccupazione che Michela non riuscisse a tenere l’equilibrio. Mentre se la mangiava con gli occhi, infatti, valutava che quel pancione, cresciuto quasi improvvisamente sul davanti della sua compagna, e del quale si sentiva nello stesso tempo orgoglioso e colpevole, avrebbe finito per prevalere sul peso del resto del corpo finendo per farla cadere. Riteneva, infatti, insufficiente il contrappeso offerto dalla parte posteriore, pur apprezzandone la crescita degli ultimi mesi. Infilò gli scarponi anti infortunistici, si avvicinò a Michela e la salutò senza parlare con un bacio sulla fronte. Uscì e, mentre tentava di avviare il vecchio vespino regalatogli dal padre quando andò in pensione, “tienilo tu, a me non serve più” gli aveva detto, incontrò la suocera che, armata di zappa e secchio si dirigeva verso l’orto come ogni mattina. “Vado ad innaffiare le rose, ma torno subito dopo da Michela” lo aveva tranquillizzato. Dopo qualche chilometro di strada bianca, si immise nella provinciale già piena di traffico. A quell’ora si muovevano tutti verso la grande metropoli o in direzione della raffineria, dove Gigi lavorava alle dipendenze di una piccola impresa, che aveva vinto l’appalto per la ristrutturazione di un capannone dismesso da anni. Per due anni il lavoro era assicurato. Nel frattempo Rosa sarebbe cresciuta e lui qualche soluzione l’avrebbe trovata di sicuro. “Bisogna affrontare un problema alla volta” si disse per consolarsi mentre gli lacrimavano gli occhi per la salsedine e la nube del grande fumaiolo della raffineria, che lo scirocco gli sbatteva addosso. Entrò nello stabilimento. Accostò il motorino alla parete del capannone e, sollevando lo sguardo, vide in cima all’impalcatura Gianni, l’anziano collega che gli aveva insegnato il mestiere. “Prima di salire, imbragati bene!” gli urlò quegli, cercando di superare con la voce il vento ed il ronzio sordo e continuo dello stabilimento. “E tu?” replicò Gianni con lo stesso tono di voce. “Ce n’è uno solo, lo sai” – rispose Gianni sporgendosi dall’impalcatura “L’hai sentito cosa ci ha detto il ragioniere il mese scorso o no? La ditta non ha soldi! E poi, io sono anziano ed esperto, non mi succede niente, basta stare attenti! Lo ripete sempre il geometra. Mettilo tu, ché sei ancora pivellino!” Gigi, umiliato dalle affermazioni dell’amico e, comunque, poco convinto, si imbragò e cominciò a salire sull’impalcatura per raggiungere Gianni. Arrivato al terzo piano vide gli altri due dipendenti della ditta già impegnati ad “armare” la soletta. Dovevano finire il lavoro entro le quindici, ora in cui sarebbe arrivata la betoniera con il cemento. Sarebbe stata una giornata febbrile e senza sosta. Prese gli arnesi e si diresse verso Gianni, intento a piegare un tondino di ferro. “Attacca sulla destra” gli ordinò il collega “e vedi di muoverti, ché siamo in ritardo”. Si diresse verso il punto indicatogli e cominciò ad armeggiare con gli arnesi del mestiere. Il sole cominciava a scaldare. Si levò la canottiera, rimanendo a torso nudo mentre le gocce di sudore cominciavano a scorrere lungo il petto e la schiena. Gianni continuava ad andare avanti e indietro trafelato lungo l’impalcatura, impartendo ordini e mettendo mano personalmente al lavoro quando pensava che i colleghi fossero in difficoltà o procedessero troppo lentamente. “Ci dobbiamo sbrigare!”, urlava ogni tanto, correndo sulle tavole malferme. Gigi continuava a lavorare con il pensiero da un’altra parte. Pensava a Michela ed a Rosa. Pensava a quando l’avrebbero portata per la prima volta al mare. “Non in questa spiaggia di merda!” si disse chiedendosi come facessero a resistere alla puzza di uovo marcio i bagnanti che aveva visto di primo mattino lungo la spiaggia mentre percorreva la strada per lo stabilimento, rintronato dal motore del vespino, che sembrava squittire. Pensava a quando sarebbe tornato a casa ed avrebbe poggiato la mano aperta sul pancione di Michela per sentire Rosa scalciare. Pensava al sorriso che gli avrebbe regalato Gianni, che lo considerava quasi un figlio, quando gli avrebbe detto di Rosa durante la pausa delle tredici: il solito panino e la solita birra, ormai bollente, consumati quasi senza fiatare per non perder tempo. “Sto per diventare nonno anch’io, lo sai!”, gli avrebbe risposto soddisfatto. Erano mesi che ripeteva: “Non vedo l’ora che nasca Filippo, lo prendo in braccio e me ne vado in pensione!” Gigi continuava il suo lavoro meccanicamente. Se gli avessero chiesto cosa stesse facendo, prima di rispondere avrebbe dovuto fare mente locale. Venne riportato alla realtà da un urlo disperato, che s’interruppe un attimo dopo, così com’era iniziato. Sollevò lo sguardo cercando quello dei compagni. Mancava solo Gianni. Capì subito che il collega aveva messo un piede in fallo ed era caduto di sotto. Si affacciò dal ponteggio insieme agli altri colleghi. In terra, ai piedi dell’impalcatura, non c’era. Si sporsero chiedendosi con la voce strozzata “Dove cazzo è finito? Cazzo!” e lo videro incastrato tra le tavole, due piani sotto. Ancora oggi Gigi non sa spiegare in che modo lo raggiunsero. Era vivo. Malconcio, ma vivo. Urlava. “La gamba. Mi sono spezzato la gamba, porca troia!”. Gigi seguiva l’ambulanza in motorino tra le lacrime di rabbia e di disperazione. “S’est arrogau, ma est biu!” si disse con un sorriso amaro. Gli tornò in mente il funerale di qualche settimana prima. Tre bare. Tre vittime del lavoro. Un paese in lutto sotto il sole cocente. Tutte le autorità civili, militari e religiose a fare vetrina calpestando con facce di circostanza e scarpe di marca la ghiaia del loggiato della chiesa stracolma di dolore. E tutti a impegnarsi solennemente: “Mai più!”. “Mai più unu cazzu!” urlò contro il vento. “Bisogna affrontare un problema alla volta”, si disse ancora. “Questo è uno di quelli che non ti lasciano tempo” e decise che si sarebbe rifiutato di lavorare se, al rientro, non avessero avuto tutti l’imbrago. Solo quando scese dal motorino, davanti al pronto soccorso, si rese conto di essere a torso nudo ma era l’ultima cosa che gli importava. Si avvicinò alla lettiga e strinse la mano di Gianni. Quando sentì che il collega rispondeva, stringendogli a sua volta la mano, lo rimproverò bonariamente “Basta stare attenti, vero? Coglione!” e poi aggiunse con un filo di voce: “Vuoi fare da padrino a Rosa?”. “E chi è Rosa”, chiese a sua volta Gianni con il viso sofferente e perplesso. “Mia figlia … nasce tra una ventina di giorni!”. “Va bene”, concluse mentre la lettiga lo introduceva nella sala operatoria, “Ma ad una condizione … che tu battezzi Filippo”. Gigi, accettato lo scambio con un impercettibile cenno del capo, avviò il motorino ansioso di riabbracciare le sue donne.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo e-book "Cosa conta".
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